Leggere, e pensare ciò che si è letto

Leggo libri e, qualche volta, soprattutto se sono libri scritti da Autori che conosco, mi piace fissare le mie impressioni, appena chiusa l’ultima pagina, in una breve nota. Le trovate in questa sezione. Se serviranno a orientare qualche vostra futura lettura, ne sarò molto contento.

Francesca BOTTONI e Gianpiero LINETTI

L'America on the road a 360°

L'America (on the road a 360°)

Francesca Bottoni

Gianpiero Linetti

 

Questo divertente e insolito libro è un saggio sugli Stati Uniti, un resoconto di viaggio, un diario di vita vissuta.

Si narra, in forma di resoconto day-by-day delle vicende che riguardano i due autori durante quattro viaggi intrapresi in America, e diversi tra di loro per gli itinerari, ma non per le modalità di esecuzione. Infatti sono sempre viaggi in macchina (in genere SUV o fuoristrada): gli itinerari sono nell'ordine (1) il sud-ovest (San Francisco-Las Vegas-Albuquerque-El Paso- Phoenix), (2) il nord-est (in pratica tutto il New England), (3) uno straordinario doppio coast-to-coast (Georgia-Bassa California, andata e ritorno) con un percorso a otto rovesciato con punto di incrocio tra Oklahoma e Texas e infine (4) un "passaggio a nord-ovest", vale a dire il grande nord americano che include la costa del Pacifico tra Seattle e Portland per proseguire poi fino a Salt Lake City, Cheyenne e gli Stati del Nebraska, South Dakota, Montana e Idaho.

 

Vi chiederete: chissà quale famosa agenzia di viaggi ha realizzato questi progranmmi. E invece no, si evince dal contesto che certamente c'è stato uno studio preventivo dei percorsi a tavolino, ma è chiaro che ci troviamo di fronte a un tipo di viaggi che hanno poco da spartire con turismo programmato: le parole on-the-road che appaiono nel titolo non sono lì per caso. Qui siamo veramente nel dominio dell'avventura, della scoperta dei territori attraversati e delle popolazioni che li abitano giorno per giorno: poche prenotazioni indispensabili (ad esempio il noleggio dei mezzi di trasporto e qualche albergo) e poche mete prefissate. Per il resto vale la regola "vediamo che succederà domani", gli itinerari si possono sempre cambiare, una destinazione può essere cancellata e sostituita con un'altra.

Insomma, diciamocelo, una di quelle esperienze che probabilmente molti di noi hanno sognato di fare nella vita e che in realtà non abbiamo mai fatto.

Invece Francesca e Gianpiero non si sono limitati a sognare.

 

La lettura di questo testo è resa affascinante, a mio parere, da due elementi: la descrizione puntuale degli incontri con le persone più diverse, gli infiniti aneddoti, le curiosità svelata di una società così complessa e variegata, sono per certo fattori di grande interesse. Ma è anche una acuta analisi delle differenze culturali tra l'Europa, l'Italia in particolare, e gli U.S.A. che percorre sottotraccia tutto l'impianto narrativo che rende particolarmente attraente questo diario.

 

Concluderò dicendo che il libro si legge volentieri, un vero page turner, e che lascia nel lettore una memoria destinata a rimanere e che fa riflettere. 

Banine - Incontri con Ernst Jünger

Banine

Incontri con Ernst  Jünger

De Piante Editore, per Associazione Culturale Terra Insubre

 

Ernst Jünger (Heidelberg 1895-Riedlingen 1998) è stato uno dei più brillanti, e controversi, intellettuali tedeschi del secolo scorso.

Ufficiale (e soldato sconfitto) nelle due Guerre Mondiali, sotto le bandiere germaniche, dovette affrontare un severo ostracismo dal parte della comunità letteraria mondiale per la sua partecipazione al nazismo, anche se in verità non aderì mai al partito e fu addirittura, nel 1944, uno degli ispiratori dell’attentato fallito contro Hitler. I congiurati furono sterminati senza pietà, ma Jünger non fu toccato, il che si può spiegare, credo, solo col fatto che Hitler fosse un suo fervente ammiratore.

Jünger da giovane scrisse libri in cui si esaltava il coraggio dell’uomo che muore in guerra per una causa in cui crede, e questa sua ammirazione venne equamente riservata ai combattenti dell’una e dell’altra parte. In seguito la sua visione del mondo e della vita, e del destino di ogni uomo, si fece più acutamente sofferta e lucidamente pessimista, fino a pervenire ad una specie di speranza messianica di salvezza e resurrezione. Di grande interesse storico e psicologico sono i suoi Diari di Guerra col titolo Strahlungen, Irradiazioni (1941-1945) in tre volumi tradotti e pubblicati prima da Longanesi nel 1957 e poi nel 1983. Vi fu in seguito un’edizione di Guanda del 1993. Oggi questi testi sono introvabili in italiano, ma sono disponibili le versioni in inglese, in francese e in spagnolo.

Delle proprie lunghe e complesse frequentazioni con quest’uomo, scrittore e pensatore difficile e problematico, parla una donna dalla vita straordinaria nata in Azerbaidjan e naturalizzata francese Banine (nom de plume di Umm el-Banine Assadoulaeff, Baku 1905-Parigi 1992) nel suo bel libro “Incontri con Ernst Jünger” pubblicato da Associazione Culturale TerraInsubre, per i tipi di De Piante Editore, Milano 2021).

 

Una lettura assolutamente affascinante.

 

Banine

Maria Paola Guarino, Il tempo è la sostanza di cui sono fatto

Maria Paola Guarino

Il tempo è la sostanza di cui sono fatto

Edizioni VIE

 

Note di lettura

26 Aprile 2022

 

Maria Paola Guarino, l’autrice di questo illuminante testo sulla vita carceraria, esplorata dal ”di dentro”, è insegnante di lingua italiana e proprio in questa sua veste ha tenuto una serie di lezioni a gruppi di detenuti della Casa Circondariale Le Sughere di Livorno.

Da questa esperienza nasce il libro che ho appena terminato di leggere: raccolta di testi prodotti dai suoi “studenti”, intercalati da riflessioni personali maturate proprio dal contatto diretto con la realtà del carcere e con i detenuti.

Negli ultimi anni ho seguito con interesse la produzione, sempre più frequente, di libri che trattano l’argomento “reclusione”, interesse che nasce dal fatto che io stesso da oltre dodici anni sono un operatore culturale nelle carceri milanesi, dove tengo corsi di argomento scientifico. Ebbene, questa fioritura di testi, pregevole in quanto solleva l’interesse e il dibattito su una realtà spesso trascurata o dimenticata, ha la caratteristica di appartenere spesso al genere saggistica, cioè testi rivolti a “specialisti” quali psicologi, assistenti sociali, editorialisti, esponenti politici e via dicendo. Al contrario questo libro offre a tutti i lettori culturalmente interessati al grande tema della libertà personale, una visione diretta, non intermediata, di cosa sia veramente la vita in carcere tramite la voce dei suoi protagonisti, i detenuti.

Sono voci dolenti, naturalmente, poiché la perdita della libertà è, credo, la più dolorosa delle perdite, ma si avvertono negli scritti accenti diversi; c’è la consapevole accettazione della pena, c’è la protesta contro “il sistema”, c’è la rivendicazione di innocenza (con l’implicito sottostante errore giudiziario)... ma aleggiano sempre, al di là e al di sopra di tutto, le magiche parole: quando sarò libero. Ecco, credo che proprio qui ci sia un nodo irrisolto: il carcere ha regole, spesso severe, alle quali ci si deve di necessità assoggettare;  il sistema giudiziario ha d’altra parte previsto alleggerimenti di pena e altri vantaggi per chi segue un iter detentivo “virtuoso”,  in altre parole per chi “si comporta bene” e non crea tensioni o problemi all’interno delle strutture detentive. Quindi, al di fuori della condizione estrema dell’ergastolo e del carcere duro, il noto “41 bis” , per ogni detenuto la frase quando sarò libero ha un significato preciso, reale e concreto, più o meno lontano nel tempo, un obiettivo che si può e si deve conquistare, anche a costo di imparare ad imporsi una qualche forma di autodisciplina.
Ma, ecco il punto, per molti che giunti a fine pena lasciano il carcere, il mondo esterno appare come luogo ostile, un luogo dove il reinserimento sociale, economico e affettivo è problematico, se non addirittura chiaramente irraggiungibile. Come mia nota personale ricordo sempre il senso di sconforto che mi coglie quando vedo uno dei miei “ragazzi” riacquistare la libertà, per poi ritrovarmelo nuovamente di fronte dopo un po’ di tempo.

 

Concluderò queste mie riflessioni con la speranza che l’eccellente libro di Maria Paola Guarino contribuisca a smuovere le coscienze, attraverso le vivide parole di queste ombre che vivono in un non luogo una non vita, in tal modo che la società civile prenda atto di un fondamentale principio: chi ha pagato il proprio debito con la giustizia, ha il diritto di rientrare a testa alta nel mondo del lavoro e nella dignità di vita che compete a ogni cittadino.

Adelfo Maurizio Forni, La Spia del Titanic

Adelfo Maurizio Forni

La spia del Titanic

Genesi Editrice

 

Questo romanzo, che è di spionaggio, ma di uno spionaggio più meditativo e ragionato che di azione estrema o violenta, quale abbiamo spesso  incontrato nella letteratura del genere anglo-americana degli ultimi decenni, mi è molto piaciuto, anche perché mi ricorda lo stile e le atmosfere di un autore che amo molto, Eric Ambler.

La nostra spia inizia a Napoli imparando un mestiere, quello di parrucchiere-barbiere, per poi trovarsi lentamente coinvolto, attraverso un susseguirsi di accadimenti narrati in modo divertente, in una trama di spionaggio che fa capo ai servizi segreti militari del Regio Esercito Italiano.

L’orizzonte della trama si inserisce in un robusto schema storico che copre la prima metà del secolo scorso. Vediamo quindi la nostra spia impiegata nel contesto dell’espansione coloniale italiana in Africa, poi nelle vicende degli Imperi Centrali che cercano alleanze con l’Impero Ottomano, e via via nella Prima Guerra mondiale per concludersi infine, attraverso scenari americani, alle collusioni della mafia con lo sbarco degli Alleati in Sicilia, durante la Seconda Guerra mondiale.

Come si vede il protagonista Antonio De Luca, che ritroveremo poi nel corso del romanzo sotto diversi nomi, non si è risparmiato nulla delle grandi vicende dell’epoca in cui gli è toccato di vivere. Ma la nostra simpatica spia attraversa le avventure, i drammi e le tragedie con una certa “napoletanità”, volendo dire con questo con un certo spirito tra il fiducioso e il fatalista, col quale sembra sempre pensare che prima o poi ogni guaio troverà una soluzione.

La scrittura è agile e veloce, e il lettore ne viene immediatamente catturato, con quella spinta a vedere “come va a finire” che caratterizza ogni buon romanzo. Senza questa spinta, la qualità che in inglese si definisce come “page turner”, vale a dire “che fa girare le pagine” un romanzo spesso scivola nella noia che è la madre di tanti libri abbandonati a metà lettura. Rischio che certamente non corriamo con questo libro, coinvolgente, interessante e pieno di humor coniugato con un ben documentato sottofondo storico. Non mancano anche una serie di veloci incursioni narrative nella vita sentimentale del protagonista: è un bel ragazzo e ama, riamato, molte donne, ma è chiaro che la sua professione di spia non gli consenta legami di lunga durata. Una delle molte avventure che il testo ci presenta dà il titolo al libro, La spia del Titanic. In questa fatale location si svolge una delle vicende chiave della narrazione, prima durante e dopo l’universalmente noto naufragio. Non dirò di più per non privare il lettore del gusto della sorpresa.

 

Concluderò dicendo che il libro è ben fatto, anche dal punto di vista grafico ed editoriale, e non deluderà il lettore appassionato di questo inesauribile filone letterario.

Arnaldo Pavesi, 13 GOCCE DI CERA ROSSA

Arnaldo Pavesi

13 GOCCE DI CERA ROSSA

 

Il Ciliegio edizioni

 

Un giallo classico con una marcia in più: l’ambientazione.

Vediamo. Dico classico perché la trama rientra nel filone dei delitti in ambito familiare, largamente esplorato dai thriller britannici. E poi la linea principale delle indagini è condotta da un protagonista non istituzionale, uno che in realtà fa tutt’altro nella vita, ma si trova nella situazione in cui non può esimersi dal cercare di risolvere l’intrigo in cui si trova coinvolto, un topos letterario che fa parte appunto dalla giallistica classica.

Ci sono anche, è vero, poiché la vicenda si svolge in Italia, polizia, carabinieri e guardia di finanza a fare da contraltare alle indagini “private” dell’esperto d’arte antica Ludovico Boringhieri, ma è indubbio che egli rappresenti il perno attorno al quale ruota l’intera saga.

Ho detto prima che l’ambientazione costituisce un notevole plus di questo romanzo, perché è non solo inconsueta (un antico palazzo veneziano, risultato di successive concrezioni architettoniche evolutesi nel corso dei secoli), ma anche clam depositum di innumerevoli antiche opere d’arte di grande pregio, statue, dipinti, arredi, oggetti d’ogni genere: ci si rende ben presto conto che Boringhieri nuota in questo oceano di bellezza con l’agilità e l’eleganza di un delfino.

Il palazzo nasconde segreti: misteriosi passaggi, stanze nascoste, impervi cunicoli. E nasconde antiche storie che legano passato e presente dei numerosi membri di una vasta famiglia di illustre e nobile ascendenza, molti dei quali vantano diritti ereditari sulla proprietà e su ciò che contiene. Ma una nube nera oscura l’orizzonte: il capofamiglia e di fatto dominus della proprietà, recentemente scomparso, ha lasciato grossi debiti con una banca, che ora potrebbe ingoiarsi il tutto, esercitando i diritti ipotecari. L’erede principale in linea diretta, figlio del conte defunto, cerca come estremo tentativo di salvezza di vendere le collezioni d’arte sparse disordinatamente nel palazzo per ripianare i debiti del padre e per conseguire questo risultato ingaggia Boringhieri per fare periziare i beni e organizzare un’asta. A questo punto all’attività professionale di stima delle opere d’arte catalogabili e vendibili, Boringhieri affianca quella di detective “dilettante”, dove ben presto si capisce che l’aggettivo dilettante va inteso nel senso in cui Albinoni si definiva “dilettante veneto”: l’esperto ha fiuto non solo per l’arte, ma anche per cogliere gli indizi di oscure macchinazioni, complotti crudeli, delitti abilmente mascherati.

Non dirò altro, per non privare il lettore del piacere di addentrarsi da solo nei meandri narrativi di questa vicenda complessa, della quale il nostro Boringhieri viene a capo con sorprendente sagacia e maestria, mentre trova anche il tempo e il modo di intrecciare una torrida relazione sentimentale con una donna affascinante.

Il colpo di scena finale, soluzione dell’intero dramma, è degno del miglior Poirot della migliore Agata Christie.

 

Buona lettura!

Paola Trinca Tornidor, Poesie

ichiarato 

Paola Trinca Tornidor 

Transizioni sentimentali

Poesie

Edizioni Il Cuscino di Stelle 

 

 Note di lettura di Carlo Alfieri

16 Gennaio 2021 

 

Per parlare della poesia di Paola, la prenderò un po’ alla lontana e farò un breve excursus nella pittura. Pensate di osservare in una pinacoteca una veduta di Venezia del Canaletto o di Francesco Guardi, oppure dei paesaggi inglesi di John Constable, tanto per fare un paio di esempi, e poi di passare, nella sala successiva, a un’esposizione di quadri di Edvard Munch.

Ecco, sono certo che il senso di pace, di calma, di quieta malinconia che vi avevano ispirato le tele della prima sala, nella seconda lascerà spazio a un vivo senso di inquietudine.

La poesia di Paola trinca Tornidor non è espressione di calma contemplazione della bellezza, né di dolci abbandoni nostalgici: la sua poiesis è la costruzione dell’inquietudine.

Fermenta, nei suoi versi, qualcosa di oscuro, di non detto, che però è ben presente e tuttavia di non facile decifrazione. 

Il lettore percepisce note passionali, note dolorose, suggerimenti di sconforto alternati a lampi di speranza. Visioni di un possibile futuro migliore, però sempre velate da un certo pessimismo di fondo. Infine accettazione della propria condizione esistenziale, quasi un raggiungere, alla fine di un faticoso viaggio per mari tempestosi, il porto sicuro.

 

Queste poesie ci dicono che la vita non è avventura che si possa sempre costruire in modo razionale. Ci offre, la vita, possibilità, potenziali occasioni, aperture inaspettate, chiusure deludenti.

     Tessere  di puzzle

     di diversa provenienza

     non si combinano

     sul bianco tavolo

     dell’esistenza.

 

Dietro il fondale di fatti conseguenti e ordinati che ci illudiamo di dominare, dietro il succedersi quotidiano del prevedibile, si aggira lo spettro dell’imprevisto, dell’accadimento sconvolgente, che ci fa smarrire il senso del reale, del logico decidere, e ci consegna a una faticosa improvvisazione difficile da gestire.

     Ti ho aspettato

     in un estenuante stillicidio di ore

     con la fiducia stolida di un cane

     davanti alla tomba del proprio padrone

     ...

     Ho chiuso gli occhi al giorno

     lasciando vagare il dolore nei sogni inquieti.

 

Poeta è colui che accetta la sfida di aprire uno spiraglio alla porta del proprio cuore. Non è uno spalancare, azione che un privato, antico pudore impedisce a ognuno di noi di fare, ma uno spiraglio sì, e già occorre molto coraggio per fare questo. Da questo spiraglio fluisce la poesia che con i suoi versi ci indirizza, ci indica una via, ci dà un suggerimento.

Il fascino di leggere poesia è proprio in questo interpretare il non dichiarato e reperire il significato profondo non solo delle parole in sé, ma del concatenamento delle parole.

Il fascino di rompere il sigillo e interpretare l’antica scrittura che si credeva impenetrabile.

     Anche tu mi manchi

     da molto tempo.

     Da quando la tua mente

     si è allontanata

     seguendo altri sogni.

 

     Io ero qui

     ma ero sola.

 

     Tu te n’eri già andato. 

 

 

Il tuo nome è Boris Cortese?, F. Manarini & M. Rodighiero

Francesco Manarini, Massimo Rodighiero

Il tuo nome è Boris Cortese?

Eclisse Editrice

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

11 febbraio 2018

 

Leggere questo libro senza essersi vaccinati con la lettura dei precedenti romanzi degli Autori, può essere pericoloso: potreste essere indotti a pensare di avere contratto qualche strano virus che vi ha improvvisamente abbassato l’IQ al punto di non capire cosa state leggendo, almeno per le prime cinquanta pagine. Ma non preoccupatevi, è solo uno smarrimento iniziale, poi pian piano vi riprenderete e comincerete a intravedere una trama assolutamente coinvolgente. Trama che ruota attorno ad uno strano oggetto, che stenta però ad assumere una forma e una funzione comprensibile: per spiegare quello che intendo dire farò un esempio: se osservate un foglio di carta che esce centimetro dopo centimetro da una stampante, ad un certo punto intuirete che l’immagine in accrescimento probabilmente rappresenterà, ad esempio, un gatto. Ma se la stampante è tridimensionale, il vostro gatto sarà molto più difficile da individuare e anche se a un bel momento potete pensare, osservando le prime forme, che verrà fuori un quadrupede, stenterete molto a prevedere dove si collocherà la testa e dove la coda.  Adesso provate ad immaginare che la stampante sia un’ipotetica stampante pentadimensionale, e che il felino sia un animale chimerico con sette teste e sette code. Capite cosa voglio dire? Molto difficile fare previsioni sulla forma finale. Ma non perdetevi d’animo: infine l’Araba Fenice salterà fuori, anche se, come recita la filastrocca, “che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa”.

 

Ambientazione. Il romanzo si dipana in un futuro non troppo lontano, dove ci sono oggetti d’uso quotidiano del nostro presente, solo un po’ più avanzati, ma comunque pensabili come possibili in base ad una normale evoluzione della tecnologia: telefoni cellulari che producono immagini in forma di ologrammi, manette a “memoria di forma”, microfoni dissimulati in un neo dell’epidermide, ed altri marchingegni elettronici. Fin qui tutto bene. Le condizioni socio-economiche al contorno sono invece assolutamente normali, uomini e donne mangiano e bevono cibi e bevande comuni, si ubriacano, rubano e cercano di fregarsi a vicenda, con un po’ di sesso qua e là, proprio come oggi. L’unica vera presenza inquietante è una scatola, un cubo o parallelepipedo, un dispositivo misterioso del quale veniamo a sapere che ha la possibilità di prelevare, tramite elettrodi applicati al cranio, il set completo di informazioni che formano la memoria di un individuo e di trasferire questa memoria nel cervello di un altro, il quale così si ritroverebbe nel suo proprio corpo pensando di essere un altro.

Un’esperienza sgradevole, presumo.

Questo attrezzo fa gola a molti, ai quali non importa assolutamente nulla di modificare neuroni altrui, ma sono solo interessati al fatto che per mezzo di questo  mirabolante dispositivo si possa arrivare a possedere un Oggetto non precisato, che  interessa ad un Compratore disposto a sborsare paccate di euro per venirne in possesso.

 

 

Inizia dunque una non nobile gara tra emeriti gaglioffi per arraffare l’oscuro oggetto del desiderio, ognuno di loro convinto in cuor suo di avere messo a punto un piano perfetto per fottere i concorrenti. Il recensore si guarderà bene dallo svelare i meccanismi e gli inghippi e le trappole e le contro-trappole di cui è costellato il racconto in itinere.

Basterà dire che il congegno elettronico che apre la memoria altrui come un'apriscatole, ha anche un nome: il Trasferitore di Puskas, e che il preziosissimo Oggetto che interessa il Compratore è un puro Mc Guffin, nella definizione che ne diede il grande Hitchcock.

Immagino che bruciate dalla voglia di cercare in Wikipedia cosa cippa sia un Mc Guffin: non fatelo, prima di avere finito il libro. (Se lo sapete non ditelo in giro).

Nel frattempo, aggiungerò una mia considerazione, tendente ad avallare il concetto di Mc Guffin: alla fine del libro ho pensato che l'Oggetto sia una reincarnazione dell’immortale sarchiapone, protagonista di un’indimenticabile sketch di Walter Chiari. Chi se ne ricorda, si renderà conto che si tratta di un elemento narrativo di grande fascino, proprio per la sua indeterminatezza.

 

Fin qui la fabula. L’intreccio e la scrittura sono un argomento da affrontare con attenzione: ad una storia espressa a livello di linguaggio piano, quotidiano, tra personaggi di non eccelsi livelli culturali (con rare eccezioni), spesso con comportamenti ed espressioni da frequentatori di oscuri angiporti, fa da contrappunto un’eccellente tecnica narrativa in feed-back, con scarti virtuosistici tra il prima e il dopo, e ritorni continui con nuovi piani sequenza, nei quali cambia continuamente la focale. Occorre farsi prendere da questo gioco e consiglio  i lettori di non porsi troppo domande, per non inceppare il flusso delle informazioni che gli Autori forniscono con accortezza per farci giungere ad un finale sorprendente,  razionale, ma nello stesso tempo ammantato da uno straniante alone metafisico, che ci lascia pensosi alla parola fine. Ci chiediamo: cosa abbiamo letto? Un romanzo travestito da favola? Una favola in forma di romanzo? Vi darete la risposta da soli. Buon divertimento.

Che domenica bestiale, Angela Borghi

Angela Borghi

Che domenica bestiale

Romanzo

 

Robin Edizioni

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

24 dicembre 2017

 

Il genere giallo sembra un genere tutto sommato non arduo. Ci vuole un delitto, il che implica un colpevole. Ci vuole un investigatore che smaschera il colpevole. La giustizia infine trionfa.

Però, forse, i delitti sono più di uno, e forse il colpevole non è solo ma ha dei complici, e gli investigatori sono tanti, alcuni istituzionali, altri privati, altri degli ingegnosi dilettanti. E i moventi? Moltissimi e diversissimi tra di loro e gli strumenti per uccidere riempirebbero dieci volumi d’enciclopedia. Per non parlare della giustizia, che si muove nelle sabbie mobili di migliaia di norme giurisprudenziali, e delle location, virtualmente infinite.

Da qui le combinazioni e le permutazioni narrative sono tali che se le usassimo per costruire un grafico relazionale, otterremmo una specie di albero genealogico da fare invidia alla casa regnante inglese da Enrico II Plantageneto in avanti.

Venendo al nostro testo, dirò subito che Una domenica bestiale è un buon giallo, di solido impianto e senza sbavature (preciso che per sbavature intendo quelle piccole imprecisioni che così spesso trovo nei romanzi gialli: non errori gravi, altrimenti non mi metterei neppure a recensire, ma granelli di polvere che pur non compromettendo la trama, stridono fastidiosamente all’orecchio del giallista appassionato). Ecco, ripeto, senza sbavature e quindi di gradevolissima lettura.

Volendo assegnargli un genere e i relativi sottogeneri direi così: giallo classico, con omicidi misteriosi e investigatori istituzionali (carabinieri). Ambientazione: borgo di duemila anime che sarebbe piaciuto ad Agata Christie, dove non succede mai nulla di straordinario, tutti si conoscono, e dove il privato tende ineluttabilmente a fluire nel pubblico. Personaggi e luoghi: ben delineati e perfettamente inseriti nell’ambientazione. C’è il caffè elegante, per i cittadini per bene e il caffè periferico, prossimo alla stazione, riservato ad avventori più o meno occasionali, spesso di dubbia fama. La panettiera scorbutica, ancorché bravissima a fare il pane, la procace proprietaria di un negozio di intimo femminile (un binomio erotico che turba i sonni degli uomini del paese), il mezzo scemo del villaggio che se ne va in giro indossando una maschera da sub, il tombeur de femmes che passa molto tempo in Costa Azzurra, dove dalle femmes si fa mantenere, e via dicendo, una collezione di tipi di borgo assai ben descritti nelle loro attività e piccole manie esistenziali. E infine un personaggio centrale, l’edicolante del piazzale della stazione: un tipo di filosofo un po’ distaccato dal mondo, bell’uomo che piace alle donne, ma tutto sommato disinteressato alle cose terrene e sempre perso dietro certi suoi sogni intellettuali: ricopre il ruolo complesso di persona utile alle indagini (direi che gli si attaglia il modello dell’ingegnoso investigatore dilettante, di cui ho parlato prima) e anche il ruolo, più scomodo, di sospettato dei delitti. Lo segue come un’ombra il suo simpaticissimo cane , un labrador dal fiuto infallibile, che darà un intelligente contributo alle indagini.

 

Emerge dalla narrazione anche una interessante figura femminile: il PM del tribunale di Varese, incaricata di coordinare le indagini. Prossima ai quarant'anni, single, bella donna, un poco nevrotica, sembra delusa dalle sue esperienze con gli uomini e brucia tutte le sue energie nel lavoro. (Devo dire, a titolo personale, che questo tipo di personaggio lo ritrovo frequentemente nei romanzi di autori italiani contemporanei, e mi sembra un segno, non propriamente positivo, dei tempi).

 

La trama. Una vicenda che si dipana in modo classico, descritta con una bella scrittura, scorrevole e appagante: una girandola di falsi indizi, di piste fuorvianti, di improvvisi sprazzi di luce seguiti da delusioni per i mancati riscontri. oggettivi. Gli investigatori sotto stress che non si risparmiano fatiche, ma che vanno sempre a sbattere contro qualche muro: si scoprono comportamenti illegali di minor conto, imbarazzanti tresche di amanti, insomma nugae, cose del tutto estranee al tema dei gravi delitti su cui indagano.

 

Una eccellente idea narrativa si sviluppa nel corso della narrazione: alcune pagine, intercalate al testo, riferiscono pensieri, in una sorta di  flow of consciousness, totalmente slegati dall'azione presente, quasi il controcanto di una mente dolente e furiosa allo stesso tempo che fa presagire sviluppi assolutamente inaspettati e che il lettore accorto comincia a percepire in filigrana come traccia da seguire per arrivare alla soluzione prima della parola fine, poiché questo è in fondo il gioco e il diletto del romanzo giallo, la partita che si gioca tra l’autore e il lettore. 

 

Non dirò altro, se non che mi sono divertito e che consiglio agli amici di provare questo stesso divertimento.

Quella volta che il circo arrivò a Orta, Laura Travaini

Laura Travaini

Quella volta che il circo arrivò a Orta

Romanzo

Daniela Piazza Editore

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

20 settembre 2017

 

Comincerò col dire la cosa essenziale: questo romanzo è molto bello. Fissato questo semplice concetto, spiegherò il perché.

La vicenda narrata contiene molte vite, molte storie di vite, spesso complicate e aggrovigliate che si dipanano grosso modo nell’intervallo tra le due guerre mondiali, con un epilogo sorprendente, situato nella metà degli anni cinquanta del millenovecento.

La protagonista, Amelia, una giornalista, donna forte e innamorata dell’uomo sbagliato, paga le conseguenze del suo amore con un’ordinanza di invio al confino: siamo negli anni bui del fascismo cupo che negli anni appena precedenti lo scoppio delle ostilità e più ancora negli anni di guerra, si era incamminato verso il baratro, con l’ottusità propria del fanatismo che si rifiuta di riconoscere la realtà.

 

La località in cui Amelia viene confinata è un ameno paesino che si affaccia sul lago d’Orta. Come in tutte le piccole comunità non esiste quella cosa che in inglese si chiama privacy e in italiano non si sa: i fatti di ciascuno sono in definitiva i fatti di tutti, tutti si conoscono e i rapporti interpersonali sono a volte benevolenti a volte no, un po’ maligni. Qui l’Autrice incanta con la sua capacità di delineare questo piccolo mondo antico con maestria e di mostrarci come la “sovversiva” Amelia venga accolta e si interfacci con gli abitanti del borgo.

Ad arricchire il contesto umano del luogo, arriva il circo: un piccolo circo di provincia, ma che ha tutte le sue figure di ruolo: il proprietario, il direttore di pista, i clown, gli acrobati, il domatore, l’uomo forzuto, la ballerina di flamenco e poco più. Affascina qui il gioco narrativo condotto da Laura Travaini nel raccontarci come le noiose giornate di Amelia, limitata da mille restrizioni alla propria libertà di movimento e tenuta d’occhio da un commissario di polizia un po’ fesso e un po’ invadente, si illuminino pian piano dai contatti che lei riesce ad avere con i circensi. Si svela da questo punto in avanti davanti al lettore, un lungo affresco, come una serie di murales alla Diego Rivera, i cui vividi colori si riflettano nella scrittura densa, pacata, intensa con la quale le vite degli artisti, provenienti da tanti paesi diversi, ci vengono narrate e ci fanno capire come sia potuto accadere che, alla fine, persone dalle origini così lontane tra di loro, finissero a convivere sotto lo stesso chapiteau di un circo.

 

Storie straordinarie ci scorrono sotto gli occhi, vite che avrebbero potuto prendere direzioni diversissime, anzi che erano iniziate in modo diversissimo, ma che una specie di fato ineluttabile costringe a convergere verso il centro di quell'improbabile micro-universo costituito dal piccolo paese lacustre: di questo magma umano sappiamo alcune cose, altre le intuiamo, drammi latenti che l’Autrice quasi non vuole completamente portare alla luce e ci dà solo alcuni sprazzi d’informazione, perché ogni lettore possa calarsi meglio nella fabula, ritagliandosi i dettagli secondo la propria sensibilità: storie d’amore, di abbandoni, di speranze e di delusioni, di paure e di fughe, di decisioni improvvise e irrevocabili. Amelia, in questo disvelarsi di commedie e di tragedie, sembra ricalibrare la propria vita e rendersi conto che infine il suo personale travaglio si iscrive in un travaglio esistenziale comune. In controluce vediamo anche sbocciare, ancora incerto e acerbo, un piccolo fiore d’amore che Amelia non lascerà essiccare e che, dopo un’ultima verifica sulle intenzioni dell’uomo “sbagliato”, sembra poter riprendere a crescere rigoglioso.

 

Rombante contrappunto a queste storie così intime e sofferte, sono le vicende della seconda guerra mondiale in Italia: le date fatidiche e tragiche del venticinque luglio e dell’otto settembre del ’43 danno inizio all'occupazione militare nazista dell’Italia a cui fa da contraltare lo sbarco degli alleati in Sicilia. Ci vorranno due anni per la liberazione dell’Italia, anni in cui al lento ma implacabile risalire al nord delle armate alleate, fa da specchio l’incrudelirsi della barbarie delle SS di Hitler, inferocite dal fatto che molti italiani abbiano scelto la via delle armi e della lotta contro di loro e proprio in questo contesto, come un prezioso cammeo, si incastona nella narrazione la vicenda di Dorina, avvincente e commovente, che sorprenderà il lettore.

Lettore che resterà gradevolmente sorpreso anche dalla compostezza e compattezza della struttura narrativa, cosa che però non sorprende me: so che l’editing è stato condotto da Sabrina Minetti e quindi tutto quadra.

 

 

Potente metafora della vita: il circo che arrivò a Orta, e Amelia che ne scopre le storie segrete, sono il messaggio drammatico e poetico di come nella vicenda umana di ciascuno di noi, un incontrollabile miscuglio di destino e di volontà plasmino il nostro percorso terreno: ma infine non è un messaggio di rassegnazione, anzi.  

Sperare è lecito, la felicità forse è appena dietro l’angolo. O forse dietro la tenda di un piccolo circo di provincia.

Caino, Elisabetta Cametti

Elisabetta Cametti

Caino

Cairo Editore, Milano

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

24 luglio 2017

 

 

-   C'era una volta...- Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori.

-   No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un serial killer. 

-   Ma come? Un altro serial killer? - diranno sbuffando i miei piccoli lettori.

- Calma ragazzi. Questa volta è tutta un’altra cosa e la differenza sta nell'Autrice. Elisabetta Cametti col suo nuovo romanzo ci propone una storia pazzesca, cesellata col bulino in una lingua essenziale, tagliente, dritta al punto. Non ci troviamo di fronte al solito psicopatico del quale, di solito, non comprendiamo bene le pulsioni che lo spingono alle sue abominevoli azioni, oppure le comprendiamo fin troppo bene, perché sono le solite rifritture psicanalitiche che ci hanno già servito in tutte le salse.

No, ripeto, questa è tutta un’altra storia.

Qui il personaggio è delineato con maestria, ed emerge lentamente dalle sue tenebre mentali, proseguendo la lettura, fino a farci percepire la sua presenza spaventosa al nostro fianco. Ma, cosa ancor più inquietante, capitolo dopo capitolo, ci rendiamo conto che il mostro è una mala pianta che si moltiplica, una cellula maligna che genera metastasi.

Con un geniale colpo di teatro, a circa metà libro, l’Autrice ci svela che dietro l’autore dei crimini efferati che costellano la trama, l’Artista pazzo che “dipinge” con pelle umana, il Caino del titolo, c’è un’altra mente perversa che dirige il gioco, una mente che, come fa un virus informatico che infetta i computer, ha preso il controllo dei cervelli di Caino e di altri accoliti, i quali assecondano ogni suo ordine e volere. La straordinaria machina prodigiosa con la quale la Cametti ha costruito, per dirla con Eco, la sua fabula e il suo intreccio, ci regala un’altra situazione che i giallisti (intendo con questo termine l’appassionato lettore di gialli) conoscono bene e che va sotto il nome di mistero della camera chiusa, indicandosi con questa figura un caso che è accaduto, sebbene sembri assolutamente impossibile che sia accaduto.

In questo caso il “grande vecchio” che tira le fila di tutta la vicenda è detenuto in una prigione di massima sicurezza, in attesa che entro quarantotto ore venga eseguita la sentenza di morte senza appello, alla quale è stato condannato da un tribunale.

Come fa uno in queste condizioni ad eseguire inenarrabili delitti?

Be’ questo ve lo scoprirete da soli, cari lettori, leggendo il libro.

 

Completerò queste mie note con qualche riflessione personale.

Questo romanzo ha diverse chiavi di lettura, come spesso accade per i romanzi di trama complessa e di spessore psicologico. Una è certamente quella dell’eterna vicenda della lotta tra il bene e il male. In questo caso il bene è costituito da una equipe di investigatori, e dato che la vicenda si snoda tra Stati Uniti e Venezia, la squadra è eterogenea non solo per le provenienze culturali dei suoi membri, ma anche internazionale come composizione; essa è composta di investigatori professionisti e da altre persone che non appartengono a corpi di polizia.

Ancora una volta il giallista riconoscerà un tòpos che gli è ben noto: il detective “dilettante” di genio, che affianca e spesso dà un contributo fondamentale alla polizia, per giungere alla soluzione del mistero.

Ma io credo che la vera cifra del testo sia il tema della morte. Come il lettore capirà giunto alla parola fine, è il rapporto dei “cattivi” con la morte a dare la struttura portante della storia. Costoro con la morte ci giocano, dominati da un oscuro sadismo malvagio, ne conoscono gli aspetti più angoscianti e perversi, si nutrono di macabro, e, allo stesso tempo, della morte e delle sofferenze che la precedono, non hanno paura. Un lucido e terribile cupio dissolvi domina le loro azioni.

Come dice il grande scienziato Edoardo Boncinelli nel suo “Io e Lei”, una straordinaria digressione sul tema della morte: “La morte presenta almeno due caratteristiche contrastanti. Su un piano di realtà, è un fenomeno del tutto naturale: ogni essere vivente degli ultimi quattro miliardi di anni è morto, e nessuno è mai sfuggito a questo destino. Sul piano conoscitivo ed esistenziale, invece, è il mistero di tutti i misteri: la contemplata limitatezza dell’esserci.”

Ecco, penetrare questo mistero di tutti i misteri, e il modo in cui si è installato nella mente di questi assassini, è un’altra affascinante sfida intellettuale che questo libro pone ai suoi lettori.

 

Sembra che la giustizia alla fine vinca la sua battaglia, sembra che il bene abbia ripreso il controllo della situazione, sia pure a un costo altissimo. Ma non è così. Il messaggio definitivo di Caino è questo: il male è inestirpabile, morto un malvagio ne nasce un altro.

 

La battaglia deve essere combattuta, ma non può mai avere fine.

Acque amare, Marco Polillo

Marco Polillo

 

Acque Amare

 

Rizzoli

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

28 ottobre 2016

 

Un romanzo “giallo” (e, per estensione, un film “giallo”) in italiano significa che abbiamo a che fare con una trama dove ci sono, di norma:

a)     uno o più delitti

b)    uno o più colpevoli

c)     uno o più investigatori

d)    una conclusione del tutto inaspettata

In inglese questo genere si definisce thriller o mistery o detective story, cioè storie che “danno i brividi”, che emozionano, basate su elementi di mistero, mistero che solo una sagace indagine potrà svelare.

Non vi è dubbio che questo genere letterario, relativamente moderno, si sia sviluppato al suo inizio nella letteratura anglosassone. Si cita di solito, come capostipite “The murders in the Rue Morgue” (I delitti della via Morgue) di Edgar Allan Poe, anno 1841.

Il termine “giallo” in Italia nasce dal fatto che i primi romanzi, tradotti dall’inglese, furono pubblicati, a partire dal 1929, dall’editore Mondadori in una collana, Il Giallo Mondadori, in forma di periodico: i volumi avevano una caratteristica copertina gialla.

Avremo dunque, nella forma classica, un omicidio (spesso più di uno), un colpevole che si nasconde, un investigatore che deve risolvere il delitto. Su questa struttura di base, sono stati scritti migliaia di gialli, in tutte le possibili varianti. Alcuni canoni sono diventati dei classici: ad esempio l’investigatore privato, molto intelligente, molto astuto, che risolve il “caso” in competizione con l’investigatore “ufficiale” della polizia, che di solto ci fa la figura del babbeo. Ricordate Sherlock Holmes, Hercule Poirot, Miss Marple, Sam Spade, Philip Marlow, Nero Wolfe…

Tra gli altri modelli narrativi abbiamo, all’opposto dell’investigatore privato, storie di delitti risolti brillantemente dalla polizia, con un ben congegnato lavoro di squadra: direi che Ed McBain può essere preso come autore di riferimento per questo genere, con la sua serie 87° Distretto, tipico esempio di romanzi police procedural. 

La fantasia degli autori non si è fermata qui: abbiamo gli hard boiled, gialli in cui l’investigatore non è meno spietato e privo di scrupoli dell’assassino (ricordiamo gli autori Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Mickey Spillane). E poi un’infinità di varianti, come i noir, dove agli elementi di mistero si aggiungono quelli del macabro e della violenza spaventosa; i “delitti della stanza chiusa” apparentemente irrisolvibili (ma, regola fondamentale, la soluzione deve essere plausibile: i thriller, i gialli, non sono fantasy!); i gialli “al contrario” dove si sa, fin dall’inizio, chi è l’assassino, come in certi romanzi  di Friedrich Dürrenmatt).

 

Detto questo, mi concederò una nota personale: a me piacciono molto i gialli e, in particolare, quelli in “campo ristretto”: tipicamente una piccola comunità, distante dalla grande città, un paese dove tutti più o meno si conoscono, dove di regola non succede mai nulla di clamoroso. Sotto questa calma apparente, serpeggiano però sotterranee correnti: vecchi risentimenti e talvolta odi inestinguibili, pettegolezzi avvelenati, segreti inconfessabili, amori clandestini, feroci scontri familiari, vendette a lungo covate sotto falsi sorrisi.

Finché scoppia il dramma.

Ecco le vittime, ecco i sospettati e gli insospettabili, ecco il nutrito gruppo di persone con buoni motivi per compiere il delitto, ecco l’investigatore locale impacciato, che non ci raccapezza e chiede aiuto al più esperto collega di città. Con un paziente lavorio deduttivo e induttivo, con fine senso psicologico, l’uomo della legge infine smaschera il/i/la/le colpevole/i e il lettore emette un “Oooooh!” di sorpresa.

Lungo il percorso narrativo il giallista di qualità dissemina indizi, perché in verità un autentico e ottimo giallo è una sfida tra scrittore e lettore. Ci sono indizi che còlti e correttamente interpretati potrebbero condurre alla soluzione; altri fuorvianti che, come alcuni percorsi del labirinto, portano a vie senza uscita.

Ho trovato tutto questo, con grande piacere, in Acque amare, il bel libro di Marco Polillo, eccellente autore e grande editore di gialli, impeccabilmente tradotti e presentati con accurato apparato critico: la collana I Bassotti, editi, per l’appunto da Polillo Editore.

 

Buona lettura e buon divertimento!

L'uomo che non sono, Cristina Bellon

 

Cristina Bellon

L’uomo che non sono

Cairo Editore

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

25 ottobre 2016 

 

 

Un romanzo tripartito, attraversato nelle sue tre partizioni da un singolare protagonista, Giovanni Tosi, un mutante che indossa panni diversi nelle diverse stagioni della sua vita, ma che al fondo rimane sempre uguale a se stesso, l’uomo che non è. Nel suo mestiere è un professionista preparato, ma non è un imprenditore. Nella vita è un uomo mite e accomodante, ma non è un modesto. Non gli manca la capacità di giudizio, ma non è un prudente.

 

Ho pensato, non so perché, al mazzo di carte dei Tarocchi e alle sue figure allegoriche, ricordate l’Imperatrice, l’Impiccato, la Morte, il Matto, gli Amanti?

Ecco per individuare le metamorfosi del Giovanni Tosi, ho dovuto inventarmene altre tre: lo Sfigato, l’Incosciente, l’Agnello.

 

Metamorfosi: è la cifra di lettura di questo intrigante romanzo. Il protagonista, nato da una famiglia di contadini in un paesotto lombardo, consegue un diploma di geometra, si sposa, va a vivere a Milano e trova impiego in una specie di supermercato di laterizi, piastrelle et similia. Bravo nel suo lavoro, anzi molto bravo, è quotidianamente massacrato dalla titolare dell’impresa, un’arpia senza riposo. La moglie, dopo dieci anni di matrimonio, lo molla e lui torna al paesello, in un bilocale in affitto. Però continua a pagare il mutuo dell’appartamento di Milano dove vive la moglie. Svaghi: al mattino presto e alla sera: passeggiata col cane; qualche volta al bar con gli amici.

Mi sembra che la mia prima carta dei Tarocchi abbia assolto il suo compito.

 

Metamorfosi: come in uno dei più bei romanzi moderni (scritto duemila anni fa), Metamorphoseon libri XI, meglio conosciuto come L’Asino d’oro, di Lucio Apuleio, il protagonista, folgorato dalla tragica morte di un amico carissimo, sotto il segno della carta dell’Incosciente, cambia radicalmente la sua weltanschauung, la sua visione del mondo e si fa invischiare in una rete di proposte ambigue, poco chiare. Ma non vede, o meglio, non vuole vedere il pericolo.

La contropartita c’è, naturalmente: soldi abbondanti (soprattutto in confronto al suo risicato stipendio di impiegato), vita movimentata, una ritrovata aspirazione ad essere in ottima forma fisica, nuovo look. Come naturale conseguenza di tutto questo, belle donne, e disponibili. Per non parlare della soddisfazione di poter fronteggiare assai più agguerrito la sua tremenda datrice di lavoro.

Incipit vita nova: viaggi veloci di andata e ritorno verso Paesi lontani, niente domande, buste piene di banconote scambiate in fretta. Nuove eccitanti esperienze sessuali, e non solo. Progetti di nuovi acquisti importanti, i soldi non mancano. Non gli mancano, sembra, neppure gli amici di una volta, dimenticati, né il cane, affidato ad una vicina di casa. Ma si sente, sottotraccia, una vena di tristezza, una consapevolezza inesprimibile di essere su una strada in ripida discesa, verso un abisso dal quale non sarà facile risalire.

 

Metamorfosi: il gioco si fa pericoloso e proprio allora in Giovanni sembra esserci un risveglio di coscienza, una illuminazione, che gli fa riscoprire antichi valori e antichi affetti. Addirittura c’è un riavvicinamento alla ex-moglie.

Ma questo è anche il momento in cui il fato cala l’ultima carta: l’Agnello.

L’agnello sacrificale.

Ecce agnus dei qui tollit peccata mundi.

La conclusione lascerà il lettore senza respiro. Qualcuno ha sbagliato, qualcuno deve pagare.

 

Non i veri colpevoli, naturalmente. 

Sabbia, Eva F Dewalker

Eva F Dewalker

Sabbia

Edizioni dEste

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

16 ottobre 2016 

 

 

 

Metà pomeriggio, arrivo all’ultima pagina, chiudo il libro. Tazza di tè fumante con biscotti. Pensieri vaganti.

Catalogo il testo che ho appena finito di leggere nel filone realismo magico? Sì, ci può stare.

Le ombre di Gabriel García Márquez e di Jorge Luis Borges mi fissano severe. Ragazzi, gli dico, l’elemento magico c’è. Il passato che non passa, il ritorno ciclico atemporale, le premonizioni, le sensazioni dettagliate, ma inspiegabili, anche. I personaggi percepiscono l’elemento magico e cercano, senza riuscirci, di razionalizzarlo. Secondo me ci siamo.

Gabriel García dice: va bene, ma devi contestualizzare.

Va bene, contestualizzo.

Il realismo magico di Sabbia è al femminile. Tenero, delicato, soffuso. Lo spettacolo della sabbia-cenere che danza in uno stupefacente balletto con la cenere-acqua, è uno spettacolo gioioso. Non c’è paura e non c’è ansia. Per intenderci non è la sabbia dello spaventoso L’uomo della sabbia, di E.T.A. Hoffmann.

La sabbia del libro è una sabbia metafisica, che compare per dare segnali o addirittura crea gli eventi, infiltrandosi in delicati congegni e alterando il corso della storia; è sabbia da clessidra, che non si limita a misurare, ma pretende di creare, o meglio ricreare, il tempo. È una sabbia anche un po’ scanzonata, ha addirittura effetti erotici, vi rendete conto?

Jorge Luis mi guarda con occhi dubbiosi: secondo me hai sovraccaricato un po’ il rosa in questa tua analisi – mi dice.

In che senso? – dico io.

-Mi sbaglierò, ma qui il realismo magico mi sembra un artificio letterario, ottimamente usato, non lo nego, per coprire un nocciolo più duro, un nucleo di vissuto e di sofferenza vera. Chi è la tua autrice?

-Non lo so, Eva F Dewalker è uno pseudonimo.

-Lascerei perdere la F, mi sembra fuori posto; esaminiamo Eva Dewalker. Eva de walker. Eva the Walker. La Donna che cammina. Che corre per arrivare a tutto, per non lasciare indietro nessuno. Per dare molto e volte per non ricevere nulla in cambio. La immagino che corre in una grande città metropolitana e che trova, malgrado la sua vita frenetica, anche il tempo per innamorarsi.

-Accidenti Jorge, non ci avevo pensato. Quindi Sabbia è un romanzo d’amore? L’amore della giovane Aileen per Radu? Dove anche l’anziana Deiva trova il suo Edoardo? Una metafora dell’amore che non ha età?

-Sì, è così, ma questi sono amori piani e, almeno per ora, senza scossoni. Però il vero grande amore disperato, struttura portante dell’intero romanzo, è quello che non ha funzionato in passato tra il Comandante ed Eva, e che non funzionerà tra Emma e Gian. Un doppio sogno che sarebbe piaciuto a Schnitzler. La sovrastruttura magica ammanta e anestetizza una delusione… tu sai che l’amore che non sboccia, malgrado tutto in apparenza sembri favorevole allo sbocciare, è un grande substrato suscitatore di miti.

-Sabbia è infine un romanzo mitologico sull’amore?  

 

Gabriel Garcia sembra scuotersi da una specie di torpore vigile che l’aveva assalito e, con mia sorpresa, esclama: -Ecco, sì, questa è una definizione che mi piace!

 

Thomasz Setowski, il pittore del realismo magico...

Una grande opportunità, Vito Ribaudo

VITO RIBAUDO

Una Grande Opportunità

Rizzoli

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

16 ottobre 2016

 

Comincerò col dire che questo romanzo, di quasi trecento pagine, si legge assai rapidamente, nel senso che ci troviamo davanti ad un autentico page turner, un libro che non si lascia deporre, che ci trascina pagina dopo pagina per vedere come va a finire, il che a mio modo di vedere costituisce pregio sommo per un romanzo.

Romanzo che, dirò subito, va a finire in modo assolutamente imprevedibile, come il lettore scoprirà all'ultima pagina, con un colpo di scena degno della migliore tradizione dei suspense thriller. Ma questo libro non è un giallo: è la storia di un uomo, apparentemente normale, (una moglie, un figlio, un’amante) ma in realtà divorato da un’insana dedizione al proprio lavoro, dal quale trae molto denaro, molto potere, e molto nutrimento al proprio smisurato super-ego. L’Autore, per descrivere questa predisposizione psicologica, ricorre al termine dotto hubris, tratto dal greco: un termine che i dizionari rendono con "tracotanza", "eccesso", "superbia", “orgoglio” o "prevaricazione" o, se preferite in inglese, con questa definizione:

Hubris describes a personality quality of extreme or foolish pride or dangerous over-confidence. In its ancient Greek context, it typically describes behavior that defies the norms of behavior or challenges the gods, and which in turn brings about the downfall, or nemesis, of the perpetrator of hubris”. [Wikipedia]

Così è infatti, e l’ingegner Gamma, il nostro protagonista, compie proprio il sacrilegio di sfidare gli dei, attirando su di sé l’ineluttabile Nemesi.

Facilis descensus Averni, ci ammonisce Virgilio, è facile precipitare nell’inferno, assai più difficile risalirne. Da una vita pluristellata, hotel cinque stelle, ristoranti e cuochi stellati, donne stellari, il mondo per palcoscenico e la business class come privilegio permanente, l’ingegnere, responsabile HR di una mega multinazionale, si trova sbalzato in una situazione di mediocritas avvilente, un incarico a termine, circondato da persone che non lo stimano e, ancora più grave, non lo temono.

Lo strumento scelto dalla dea Nemesi, la distributrice di giustizia, è un vecchio su una sedia a rotelle, un essere umano che veramente non suggerirebbe un’idea di forza e di vendetta, ma è in realtà la vera imago diaboli, un folle misantropo che non esita a rovinare la vita di un uomo perché è stato infastidito, niente di più, da una visita non gradita, ed è proprio l’infallibile Gamma a compiere un fatale errore di valutazione e a fornirgli la mappa per farsi condurre alla rovina.

La struttura narrativa del romanzo è scorrevole e veloce. Le azioni si svolgono in due spazi temporali diversi e fortemente concatenati, come il rimbalzare di una pallina da ping-pong da una parte all'altra del tavolo, che sono solo apparentemente simmetriche.

Sullo sfondo del dipanarsi della vita frenetica del protagonista, ci sono una moglie paziente, che non emerge, c’è e si limita ad esserci, e un figlio che capitolo dopo capitolo assume sempre più consistenza e spessore, come constaterà con sorpresa il lettore.

 

Concludo dicendo semplicemente questo: un’ottima prova d’autore, che mi fa desiderare fin d’ora di leggere il prossimo romanzo di Ribaudo. 

Leonardo da Vinci, Valentina Fortichiari

Valentina Fortichiari

Vita di Leonardo da Vinci (Biografia)

Non ha mai quiete – Leonardo e l’acqua (Romanzo)

Sedizioni – Diego Dejaco editore

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

23 Aprile 2016

 

Opera vasta e complessa, questi due volumi di Valentina Fortichiari, che chiamerò dilogia nel senso in cui questo termine viene usato nella critica teatrale. Opera doppia dunque, centrata sulla titanica figura di Leonardo da Vinci, che l’Autrice sembra avere voluta bipartita proprio per confinare il rigore biografico da una parte, e il tumultuare di una incontenibile fantasia dall'altra.

Abbiamo così nella “Vita” un esempio eccellente di biografia: puntuale, rigorosa e documentata e resa più lieve da un uso assai appropriato e discreto dell’aneddoto o del particolare poco noto o controverso o divertente. Avendo gettato quest’ancora tenace in un fondale di salda presa, Valentina può dedicarsi, nel secondo volume, alla stesura di un romanzo libero, mobile, acquatico, imprevedibile come il moto ondoso in una giornata di venti incostanti.

Nella stesura tripartita del testo succede di tutto. Leonardo a Milano, alla corte di Ludovico Sforza, dà principio alla sua grandiosa Ultima Cena. Ma la sua natura errabonda viene bene descritta dal suo andare e venire in giro per l’Italia: uno per tutti, mi riferisco all'incantevole narrazione del suo incontro con il famoso bibliofilo e stampatore Aldo Manuzio a Venezia, che ci cala con straordinario realismo nella temperie culturale del Rinascimento italiano. Aldo Manuzio inoltre è il tramite per il quale entra nel romanzo un altro gran personaggio rinascimentale, l’erudito Pico della Mirandola, delineato in poche pagine con tratti magistrali.

Poi a sorpresa, ecco la seconda parte: una traslazione spazio-temporale inaspettata in Inghilterra, dove al lettore vengono presentate figure di pura fantasia, due fanciulle diverse per estrazione sociale, ma che il destino porterà a condividere una passione, un sogno: poter incontrare Leonardo. La prima, Rachel, è figlia di un pastore e la seconda, Clarice, è di famiglia nobile. Come in un simbolico contrappunto, ci viene descritta la scoperta dell’acqua di Rachel e la scoperta del sesso di Clarice. Un terzo personaggio, il giovane medico Vincent, amico della famiglia di Clarice, è il vettore che introduce Leonardo nella mente di Clarice che rimane affascinata dal racconto sulle opere del grande genio lontano, oltremarino. Vuole conoscerlo e, testarda, si prepara a partire. Poiché non è conveniente che una giovane donna viaggi sola, tramite i buoni uffici di Padre Sebastiano, le viene assegnata in veste d’ancella e di dama di compagnia Rachel, la pastorella “che aveva imparato a nuotare".

Le due ragazze a Plymouth si imbarcano sulla nave che le porterà prima in Francia, a Saint Malo e poi da qui proseguiranno alla volta di Milano, per incontrare l’uomo di cui tutta Europa parla.

 

Siamo così arrivati alla terza e ultima parte. Qui ritroviamo Leonardo che dipinge, e che si dedica alle sue altre infinite attività di progettista, di inventore, di sognatore di strane macchine impossibili, di segreto cultore dell’anatomia umana. Le due ragazze, con l’assistenza di Vincent, riusciranno infine a conoscere Leonardo; altre cose conosceranno e saranno cose del lato amaro della vita, cose che segneranno il loro destino per sempre. Ma di questo non parlerò qui, per non privare il lettore del piacere di calarsi da solo nelle magiche atmosfere sognanti che Valentina intesse nelle ultime pagine del suo bellissimo libro.

Poco prima dell'alba, romanzo di Manarini & Rodighiero

Poco prima dell’alba

Romanzo

Francesco Manarini, Massimo Rodighiero

Eclissi Editore 

Note di lettura di Carlo alfieri

5 Luglio 2014

 

 

Secondo il grande germanista, scrittore e critico Claudio Magris possiamo distinguere due grandi filoni della narrativa romanzesca. Quello del romanzo classico – storico, realistico, psicologico e ideologico – e quello del romanzo picaresco. Nel primo genere i protagonisti, pur soggetti al mutevole vento della Fortuna, possono essere felici o infelici, vincitori o sconfitti, possono perdere o trovare la fede, “ma non possono diventare radicalmente altro da sé”, come se fossero irrimediabilmente confinati nell’ambito della loro personalità.

Nel romanzo picaresco, che nel sei-settecento fonda la narrativa moderna, Magris ci indica che la Fortuna, “la mutevolezza della sorte, il girare della ruota diventano la sostanza del romanzo, il suo protagonista”. Mi piace citare qui, tra i molti esempi possibili, il mio favorito, “Lazarillo de Tormes”, di autore anonimo, pubblicato in Spagna nella secondo quarto del ‘500.

Attento alla lezione di Magris, mi sento di affermare che “Poco prima dell’alba” [Francesco Manarini, Massimo Rodighiero, Eclissi Editore] è un eccellente romanzo picaresco.

In una storia convulsa e ricca di colpi di scena, la Fortuna gioca un ruolo di primo piano, da vera protagonista. C’è anche, naturalmente, come nei precedenti romanzi della coppia di scrittori, l’elemento distopico, tratto distintivo del loro scrivere: va in scena una società sostanzialmente sbagliata, ingiusta, oppressiva verso i più deboli, ipocrita. Ma in questo romanzo c’è anche, come detto, un forte tratto picaresco: uomini tranquilli che compiono azioni da masnadieri, pensionati malinconici da fare impallidire Shining di Stanley Kubrik o di Stephen King, come preferite; truci giustizieri dediti a opere di bene, quando non sono occupati a fare “giustizia” secondo un loro personalissimo codice, questa volta sì, veramente distopico. Ogni protagonista, ad un certo punto della narrazione, sembra “uscire da sé” per giocare un altro ruolo e assistiamo continuamente all’alternarsi dei ruoli di vittima o di carnefice, dove la verità dei fatti sembra farsi sempre più sfuggente. Ma questo è proprio uno dei messaggi del libro: esiste “la verità dei fatti”? Oppure ognuno si costruisce una propria verità privata, sulla quale modella i suoi comportamenti? 

“Poco prima dell’alba” è un romanzo sul destino. Mi domando se un grande matematico, dotato di un potente computer, sia in grado di determinare, in senso probabilistico, le effettive possibilità che vite diversissime, plasmate da fattori sociali, economici e geografici assolutamente incongruenti, possano convergere verso un punto focale comune. Tendo a pensare che in termini logici, tali possibilità siano molto vicino allo zero. Ma il destino della probabilità si fa beffe, e anzi col calcolo combinatorio ci gioca, come un consumato giocatore di poker fa con le sue carte.

Con grande maestria Manarini e Rodighiero trovano il punto di sintesi verso il quale fanno implacabilmente convergere le sorti di miserabili migranti senza documenti, di anonimi signor-nessuno della piccola borghesia, di patetici arrampicatori della politica, di pensionati maniaco depressivi e di esaltati giustizieri mascherati, per i quali la linea di confine tra il bene e il male, tra la luce e il buio è indistinguibile, proprio come accade poco prima dell’alba. Neanche la cagnolina Lili sfugge al destino, che fa e disfa le prospettive come un caleidoscopio impazzito. 

Non aggiungerò altro, se non una convinta riflessione: un libro da leggere!  

Lezione di nuoto, romanzo di Valentina Fortichiari

Lezione di nuoto

Romanzo di Valentina Fortichiari

Guanda Editore

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

11 Maggio 2014

 

Romanzo magnifico, che ho letto in un giorno e una notte. Va detto che dormo poco, quindi non è stato un sacrificio eroico; solo che il romanzo prende e si ha voglia di andare sempre avanti. Però, arrivati in fondo, resta il desiderio di saperne di più della protagonista, e la parola fine lascia scontenti. Speriamo che ci sia un seguito.

Intanto, il genere. Biografia romanzata. Genere difficile, che richiede grande talento: narrativo, storico, bibliografico. Pochi libri mi hanno in passato dato il piacere di Creazione, e di Giuliano, di Gore Vidal o di Les Mémoires d’Hadrien, di Marguerite Yourcenar. Due grandi maestri delle biografie romanzate.

 

La protagonista del romanzo di Valentina Fortichiari è Colette, vale a dire Sidonie-Gabrielle Colette, uno di quei mostri sacri che la cultura francese a cavallo tra ‘800 e ‘900 seppe creare. Molto appropriatamente, l’Autrice ha scelto di circoscrivere il tempo dell’azione romanzata che altrimenti, se vi avesse incluso l’intera vita della vulcanica protagonista, non le sarebbero bastati dodici volumi. Dunque ciò che accade si colloca intorno al 1920: Colette ha quarantasette anni, è già famosa e, in quell’anno, la pubblicazione di quello che viene considerato il suo capolavoro, Chéri, dilata ancor di più la sua gloria.

Lezione di nuoto ci racconta la struggente storia d’amore tra Colette e Bertrand, il figlio di primo letto del suo secondo marito, il barone Henry de Jouvenel, detto Sidi, che ha sposato nel 1912. Da Henry avrà una figlia, Colette Renée, detta Bel-Gazou, sorellastra quindi di Bertrand. Si può essere più trasgressivi di così? Ma Colette è la regina di ogni trasgressione: secondo la moda delle intellettuali parigine del tempo, francesi e non francesi, praticare apertamente amori lesbici è pratica corrente e Colette non fa eccezione;  prima un ménage à trois con Georgie Raoul-Duval moglie di un ricchissimo americano, poi la sua nuova amante, dal 1906, è la marchesa Mathilde de Morny, detta Missy e, con l’inizio di questa relazione, coincide la separazione dal primo marito, il giornalista e letterato Henry Gauthier-Villars, detto Willy, che saprà sfruttare per anni il talento letterario di Colette, pur riempiendola assiduamente di corna. Tra i tanti episodi utili a delineare meglio il carattere del personaggio Colette, potrà essere utile ricordare che nel 1911, allora attrice di teatro, si esibì nuda sul palcoscenico, riccamente ingioiellata. Fate mente locale: 1911. Non so se mi spiego. 

 

Missy è colei che, nel 1911, regala a Colette la villa in Bretagna, location del romanzo di cui stiamo parlando. In questa villa si svolgono avvenimenti importanti nella vita di Colette: l’inizio e lo sviluppo dell’amore per Bertrand e la versione in testo teatrale del suo ormai famoso romanzo, Chéri, svolta in collaborazione con il commediografo Léopold Bertrand.

Leggendo il libro di Valentina Fortichiari si vede emergere in modo grafico un tratto del personaggio Colette che mi ha sempre molto colpito: la sua “francesità” (si può dire?). Colette è un’icona della letteratura francese, che ha frequentato culturalmente solo l’intelligencija francese. Colette, che col proseguire della sua carriera artistica diviene Commendatore della Legion, d’Onore, membro dell’Académie royale belge de langue et de littérature françaises, membro e poi presidente dell’Accademia Goncourt, Membro onorario Grand’Ufficiale della Legion d’Onore, insomma tutto ciò a cui può aspirare uno scrittore, non sembra avere avuto contatti significativi con le altre tribù letterarie che pure in quegli anni hanno segnato la vita culturale di Parigi. Parlo della diaspora culturale anglosassone, con i suoi Joyce e la sua editrice parigina Sylvia Beach, e ancora Ezra Pound, Ernest Hemingway, Henry Miller, D.H. Lawrence, Gertrude Stein, Romaine Brooks, Djuna Barnes, Francis Scott e Zelda Fitzgerald. Né, d’altra parte sembra essersi interessata della più povera e affamata diaspora russa, con Nina Berberova, il grande Chodasevič, il grandissimo Nabokov… No, lei intrattiene rapporti con Proust, con Gide, onora la tomba di Chateaubriand a Saint-Malo, conosce Paul Valéry, Maurice Ravel, Claude Debussy, Sacha Guitry. La sola eccezione sembra essere stato l’incontro con Gabriele d’Annunzio a Roma nel 1915. L’unico autore che ama incondizionatamente è Honoré de Balzac.

Marcel Proust scrive cose lusinghiere di lei nel ’19, e altrettanto belle lodi le tributò André Gide nel ’20. Noterò solo, en passant, che Gide fu colui che convinse l’editore Gallimard a non pubblicare il primo volume della Recherche di Proust, Du côté de chez Swann. Misteri della letteratura.

 

Ma torniamo alla villa in Bretagna, la mitica Rozven, il luogo dei trascorsi amori con Missy, il luogo del nuovo amore per il giovane Bertrand, il luogo che fu anche probabilmente l’unico nido nel quale la piccola Bel-Gazou potette godersi un po’ più lungo la vicinanza della madre che, come si può ben capire, fu una madre “assente”, per eccellenza, ancorché volesse bene alla figlia.

A Rozven si dipana una normale vacanza, tra persone legate tra di loro da vincoli di parentela o d’amicizia. Persone che si amano e che a volte si detestano. O che soffrono per amori non corrisposti, o per amori traditi. Lo sfondo è il variabile clima della Bretagna e il suo mare irrequieto. Qui, nella narrazione dei semplici accadimenti domestici e nelle descrizioni paesaggistiche, ci si rivela la penna preziosa e deliziosa di Valentina Fortichiari. Immergetevi nella lettura e sentite i profumi dei fiori del giardino e quelli sgradevoli delle alghe che, se non vengono raccolte ed eliminate, marciscono sulla spiaggia. E la salsedine marina, portata dal vento, farà parte dell’aria che state respirando, insieme agli aromi delle erbe con cui la protagonista, in cucina, insaporisce i suoi piatti. E ancora sarete stupiti di come, pagina dopo pagina, entrerete a far parte della “famiglia allargata” che vive a Rozven; perché, vedete, è facile mettere insieme dati biografici ufficiali, come ho fatto io poco sopra, per cercare di inquadrare storicamente Colette, la figura centrale del romanzo.

Quello che è difficile, difficilissimo, è ricreare le atmosfere e le parole e i dialoghi, che i vari personaggi si scambiano tra di loro nel vivere quotidiano, perché di tutto ciò non c’è traccia, in nessuna biografia. Occorre grande sensibilità, e capacità di introspezione psicologica e totale aderenza spirituale alla koinè che descrive il luogo e i suoi occupanti. 

Se questa era la sfida, Valentina Fortichiari l’ha vinta. Alla grande.

Lascio al lettore il piacere di scoprire il finale drammatico. Le passioni bruciano.  

Non chiedermi come sei nata, un romanzo di Annarita Briganti

Non chiedermi come sei nata

Romanzo di Annarita Briganti

Cairo Editore

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

8 Maggio 2014

 

Arrivo all’ultima pagina di Non chiedermi come sei nata ed esclamo: che bei libri che ho appena finito di leggere!

- Ma come! - diranno subito i miei piccoli lettori. 
No, ragazzi, non ho sbagliato. Il fatto è che i libri sono due. Adesso vi spiego come funziona.

Immaginate di essere in luglio, di notte, a Montecarlo per il Festival Internazionale dei fuochi d'artificio. Contro un cielo nero come il catrame, esplodono fantasmagorici giochi di luce: verdi scintillanti, gialli e arancioni caraibici, rossi inquietanti come il sangue, blu evanescenti, e misteriosi intrecci di porpora e d’indaco. Ecco, a questo paragono il primo libro che ho letto: con uno stile spezzato, avvincente e veloce come la vita di chi si sbatte quotidianamente tra professione, viaggi di lavoro, impegni sociali, rapporti di coppia, amori e disamori, amori normali e ambigui, leciti e proibiti, successi e delusioni, la protagonista ci narra, in prima persona, la sua vita tra grandi città ed eventi mondani.

Gli accadimenti sono assai intriganti, avvincenti, ma su tutto aleggia la sensazione che proprio la protagonista li viva come manifestazioni dell’effimero, come effimeri sono i bagliori dei fuochi d’artificio. E qual è l’ingrediente principale che dà a questa ricetta letteraria il suo sapore di provvisorietà? Ecco, direi che è il principio di ogni provvisorietà, cioè la condizione di lavoratore precario che tanti italiani, donne e uomini, giovani e meno giovani, sperimentano quotidianamente sulla propria pelle. In una situazione d’instabilità economica, sembra che anche tutto il resto, nel pubblico come nel privato, traballi pericolosamente: il lavoro, gli amori, le amicizie, i rapporti con gli altri. I quali altri, se sono riusciti a raggiungere la “non precarietà”, non sembrano dar molto peso alle difficoltà esistenziali del precario. Anzi: si aspettano che egli adempia sempre, fino in fondo, ai suoi doveri, col sorriso dell’ottimismo fisso sulle labbra.

La narrazione incalzante toglie il respiro e ci trasporta magicamente nel mondo dell’editoria, del giornalismo, della letteratura internazionale, dei mostri sacri della narrativa o della saggistica, con le loro grandezze e le loro manie, delle feste che suggellano o introducono presentazioni, fiere, libri, eventi culturali. C’è di che divertirsi. Sulla trama di questa scintillante mondanità l’Autrice intesse, con mirabile abilità, un ordito di storie d’amore che si compongono, si smontano e si rimontano, si perdono e si riannodano, in un trascinante, caleidoscopico vortice. Basterebbe questo intreccio per definire il nostro libro un ottimo romanzo sul vivere moderno, divertente e problematico, sostenuto da una scrittura che non è pennello ma scalpello e, quando occorre, anche elegantemente disinibita.

 

Ma adesso andiamo a scoprire il secondo romanzo. Immaginate che il cielo nero di Montecarlo sia una finzione, un fondale teatrale e che sia possibile, uscendo da una quinta laterale, aggirarlo e andare dietro. Cosa trovate? Sorpresa: qui è tutto bianco. Bianco come i letti d’ospedale, come i camici di medici e infermieri, come i muri degli ambulatori, come la pelle della protagonista trafitta da infiniti aghi. Bianco che fa male agli occhi, al cuore. Cosa succede? Lei, che si avvia verso la quarantina, sente risuonare nella testa i rintocchi del bioclock. Vuole un figlio. Ne ha già perso uno per un aborto spontaneo, ma non si arrende. Il fidanzato, a collo torto, la segue, almeno fino ad un certo punto, in questo suo desiderio che si va facendo vieppiù spasmodico. Lei le prova tutte, perlomeno tutto quello che si può fare in Italia, un luogo dove una legge iniqua e oscurantista, fino a poco tempo fa, proibiva la fecondazione eterologa.

Ci si aprono davanti scenari angosciosi, ed uso questo aggettivo a maggior ragione, in quanto sono uomo. Immagino che le donne vivano più serenamente le dinamiche del loro prodigioso apparato riproduttivo: ma gli uomini, mi sembra, hanno la tendenza a ritrarsi davanti a tutto ciò che di quel prodigioso apparato non costituisca l’eccitante proiezione esterna e visibile, che anzi li manda in visibilio. Ma dentro, nelle oscure latebre viscerali, cosa c’è? Organi misteriosi, ormono-dipendenti, collegati a cavità, connessi da tubi, no, anche i tubi diventano femminili, tube; epifanie misteriose portano ovociti, endometri, sangue. Grazie a Dio anche bambini, volendo. Ma a volte la natura matrigna nega quest’ultima possibilità, proprio come nel caso della nostra protagonista.

Disperazione.

Ma Annarita Briganti, con penna limpida, ci descrive, trasmettendoci una commozione ineffabile, la condensazione dal sogno alla realtà di una Resurrezione, una seconda di Mahler fatta di carta e inchiostro.

 

Vi auguro di provare, amici lettori, gli stessi brividi che ho provato io. 

Guinness&Love, un racconto di Rossana Girotto

GUINNESS & LOVE

 

Un racconto di Rossana Girotto

 

N0te di lettura di Carlo Alfieri

 

Appena iniziato a leggere, già con l’acquolina in bocca, mi sono detto: qui si sta cucinando una carbonade à la flamande. Invece no, si scopre ben presto che stiamo assistendo alla nascita di un Guinness stew. Vabbé, si assomigliano molto, cugini di primo grado, cambia solo la birra: una tenebrosa Guinness in luogo d’una rossa Rodenbach. Chiariti i contorni culinari, proseguiamo la lettura: ci si trova subito immersi in un divertente gioco erotico, dove la passione per la carne oscilla, come un pendolo, tra la semiotica sessuale a quella gastronomica.

La cuoca del racconto viene insidiata, nell’esercizio delle sue funzioni, da un voglioso invitato a pranzo, un commensale prossimo venturo, che però rischia di restare digiuno perché continua ad allungare le mani sulla cuciniera: che s’indovina essere appetitosa, almeno come il cibo in preparazione. E si sa che ai fornelli ci vuole attenzione e cura meticolosa del dettaglio; non si può farsi distrarre da accarezzamenti, sia pure piacevoli e graditi. Dunque occorre distogliere l’ospite immandrillito dalle sue bramosie, per poter lavorare in pace: niente di meglio che raccontargli antiche favole e, visto che si sta usando Guinness, perché no? - favole irlandesi.

Gli isolani di quelle terre, dove le donne hanno spesso occhi verdi e capelli rossi, inventarono nei secoli bellissime storie fiabesche: la nostra vivandiera, mentre armeggia con sapienza tra pentole e spezie, ce ne racconta due, assolutamente fascinose; barche che volano, barche che affondano. Sirene. Non ve le anticipo, vanno degustate lentamente, come lo spezzatino che vediamo nascere davanti ai nostri occhi.

Sarà stato l’incanto del folclore gaelico, sarà stato il cibo delizioso, sarà stato anche merito della robusta birra scura, insomma il nostro uomo alla fine si arrende, con quel tipo di resa di cui le donne tendono a compiacersi.

 

Un racconto bellissimo: mi ci sono proprio divertito! 

Fuori standard, un racconto di Sabrina Minetti

Note di lettura di Carlo Alfieri

 

Lo stile dell’Autrice si palesa subito: agganciare l’attenzione del lettore immediatamente, fin dalle prime righe. Fargli chiedere, dopo pochi secondi di lettura: ma qui dove si va a parare? Uno stile rapido, sobrio, dove l’imperativo categorico è “vietato menar il can per l’aia”, una pratica, a mio modo di vedere, particolarmente fastidiosa, del resto fortemente stigmatizzata anche dalle associazioni animaliste.

Dunque un racconto breve, parlando del quale non si può fare a meno di citare la famosa definizione dell’Alfieri (1937-…): un bel racconto è come un frutto maturo al quale sono già stati tolti buccia e torsolo.

Si mangia a morsi che è una meraviglia.

L’ambiente è quello di una potente multinazionale, nella quale il Comitato Direttivo è costituito da soci, dai poteri non paritetici: insomma, c’è una gerarchia e che gerarchia!

Dal grande capo ai soci più giovani, tutti sono tenuti al rispetto delle regole stabilite dalla mission aziendale, e comunque il Direttore Operativo, un vecchio scorbutico, impera e detta legge, sostenuto, senza se e senza ma, dai suoi fidi consiglieri.

Tuttavia il Presidente, pur non volendo interferire col lavoro day by day, sembra un po’ malignamente incoraggiare i dirigenti più giovani ad infrangere le regole, ad osare, suggerendo che, di fronte al successo, anche i più ortodossi e rigidi seguaci del Canone, alla fine non potranno che riconoscere la validità delle soluzioni proposte, per quanto irrituali.

 

Lascio al lettore il piacere e il divertimento di vedere come va a finire questa storia affascinante, e un po’ surreale, che si dipana in una fredda New York invernale, metafisica, splendente d’infinite luci, come ce la possiamo facilmente immaginare in dicembre, all’avvicinarsi del Natale.

 

 

Raccontino di Natale

Raccontino di Natale

Racconto di Annalisa Cipy Brugnoni

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

22 Dicembre 2013

 

 

Il vostro povero recensore legge le prima venti righe o giù di lì del raccontino, e dice: vabbé, è Natale, siamo buoni, l’ha scritto un’amica, poi anche i raccontini natalizi un po’ melensi hanno diritto di cittadinanza, in fondo ai bambini non gli puoi far leggere Bukowsky, no? E si prepara in letizia a scrivere le sue noterelle, che pensa di infarcire con vari epitheton ornans, tipo grazioso, dolce, istruttivo

E invece no, cazzo! (traslato rafforzativo): l’Autrice si fa beffe di noi. Altro che raccontino di Natale. L’innocente bambinella avrebbe potuto benissimo far parte del cast dell’Esorcista, nel suo animo tenebroso albergano l’ironia più perfida, tant’è che prende per i fondelli anche Babbo Natale, dandogli dell’ubriacone.

Del padre, figura vaga e assente dalla sua vita, ci fa sapere senza alcuna remora che è ospite delle patrie galere.

E malignamente declina la visione del mondo che ha preso forma nel suo ottenne cervello: piove sempre sul bagnato, i regali più belli vanno ai ricchi e i più scadenti e miserelli ai poveri. Caro Babbo Natale, ma non ti fai schifo quando ti guardi allo specchio? E d’altra parte alla piccina pure preti e catechismo stanno chiaramente sulle palle: pian piano la sua realpolitik prende forma, nella natalizia letterina, e ci mostra il vero volto dell’angioletto.

Si intuisce che di prese in giro ne ha subite fin troppe: alla prossima non perdonerà.

Leggere per credere.

 

Non conoscevo Annalisa Brugnoni scrittrice e adesso non mi rimane che invitarla a mandarmi altre cose: la trovo molto divertente e brava!

 

La chiesa

La chiesa

Un racconto di Laura Veroni, pubblicato in Giallolago, Eclissi Editore, 2013

  

Note di lettura di Carlo Alfieri

22 Dicembre 2013 

 

Se Laura Veroni ci avesse descritto, nel suo racconto, uno spettacolo circense, io avrei intitolato la mia recensione: “Triplo salto mortale, con doppio avvitamento, senza rete”. Invece no: siamo di fronte non a giochi del circo, ma a giochi tra la vita e la morte. In un giallo psicologico (stavo per scrivere psichiatrico…) molto ben costruito, l’Autrice ci propone una trama, dal ritmo incalzante, che suddividerò, un po’ arbitrariamente, in tre parti.

 

La prima parte ci introduce in una cupa atmosfera, sul classico tema del “passato che ritorna”. Una lettera che invita Lisa, la nostra protagonista, a rivisitare certi luoghi della sua prima giovinezza; telefonate che le chiedono di continuare a cercare la sorgente prima delle sue paure; lei che non sa sottrarsi a questi inviti, come sospinta da una forza esterna che non può controllare. Lisa lascia Laveno col battello e sbarca ad Intra; quelli sono i luoghi dove è cresciuta. Non sa bene perché ci va, né cosa spera di trovare. Sembra percepire un oscuro destino che l’attende, un destino che, contro la sua volontà, vuole adesso rivelarsi nella sua implacabile permanenza nel tempo.

E come quei che con lena affannata,

uscito fuor del pelago a la riva,

si volge a l’acqua perigliosa e guata,                           

così l’animo mio ch’ancor fuggiva,

si volse a retro a rimirar lo passo

che non lasciò già mai persona viva.

 

La seconda parte ci introduce nello spazio-tempo di una bella donna inquieta, all’intorno degli inquietanti quarant’anni, età nella quale, volgendo lo sguardo all’indietro, si cominciano a vedere paesaggi mutati, fuori dalla consueta prospettiva: i vent’anni sembrano assumere i contorni di una dissolvenza cinematografica e i cinquant’anni  sono là, fin troppo vicini, come un Minosse che giudicherà implacabile il primo mezzo secolo di vita. Cosa succederà dopo?

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:

essamina le colpe ne l’intrata;

giudica e manda secondo ch’avvinghia.

 

La nostra protagonista è un’attrice, non sconosciuta, non famosa. Ha sogni irrealizzati nel cassetto, anzi nel baule, perché sono tanti che nel cassetto non ci stanno più. Gli uomini sono per lei un problema irrisolto. Vive storie inconcludenti, che non lasciano neppure tracce durature. Frequenta la palestra, quando non è occupata col teatro. Vive praticamente per conto suo, con una sola eccezione: si è affidata a uno psicanalista. Perché? Per certi suoi sogni, o incubi ricorrenti, che la riportano ad un punto oscuro del suo passato di fanciulla, un punto che resta ostinatamente oscuro e che perciò stesso è fonte di angoscia. La frequentazione con il suo medico subisce una svolta, sembra nascere un’attrazione. È il solito banale transfert paziente/terapeuta? No, c’è qualcosa di più, sembra amore vero, con un bacio vero.

 Quando leggemmo il disiato riso

esser basciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso,                

la bocca mi basciò tutto tremante.

Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:

quel giorno più non vi leggemmo avante.

 

Ma poi lo psicanalista ritorna inamovibile all’etica professionale e rifiuta qualsiasi sviluppo all’amore nascente.

 

Siamo così alla terza parte: dalle ceneri del passato si erge una nera figura. È il boia o l’impiccato?

Qual è colui che grande inganno ascolta

che li sia fatto, e poi se ne rammarca,

fecesi Flegiàs ne l’ira accolta. 

 

Con una spettacolare sequenza di colpi di scena, la Verità si palesa in dettagli progressivi costruiti abilmente dalla Veroni con mezze verità, con lampi obliqui che lasciano le figure dello psicodramma avvolte nel mistero, fino alla scovolgente rivelazione finale. Non dirò altro: solo noterò che questa volta la vindice νέμεσις, la Nemesi alla quale (di solito) non si sfugge, sembra stranamente  distratta, incurante della giustizia, umana o divina. Vabbé, si vede che a volte anche la Nemesi ha altro per la testa.

 

La prodigiosa primavera

La prodigiosa primavera

Un racconto di Sabrina Minetti

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

22 Dicembre 2013

 

 

Cosa ho appena finito di leggere? È chiaro: una favola ecologica, rigorosamente bio, una variante moderna delle favole di una volta, che c’era una volta. Ma sempre una favola, con le sue strutture archetipali: una natura incontaminata, minacciata dal cattivo di turno, i buoni da una parte, i cattivi dall’altra, la vittoria del bene sul male ottenuta con un deus ex machina teatrale.  I Principi svegliano dalla morte le Belle Addormentate, le Principesse trasformano i Ranocchi in Principi, ed ecco: il cerchio si chiude e tutto torna a posto.

Nel nostro caso, ci troviamo fra le mani una tecnofavola, dove i cattivi sono i luciferini emissari della Tecnologia Inquinante; vittima è la Natura, maltrattata e resa sterile dall’avidità umana; i buoni, gli agresti abitanti della Valle Incantata.

 

Le favole, a differenza dei saggi sociologici, non amano le cinquanta sfumature di grigio: o è bianco o è nero. Per loro natura sono massimaliste e radicali: quindi anche qui si oppongono due visioni del mondo inconciliabili: il vulnus inferto alla natura, si interconnette dinamicamente alla resistenza degli abitanti, in una struttura yin-yang: il lieto fine è di rigore.

 

A me, chimico, naturalmente dispiace un po’ essere sempre posto dalla parte dei cattivi, ma tant’è, ormai ci ho fatto l’abitudine. È però elemento di conforto che, infine,  la soluzione arrivi dalla scienza.

Vediamo: il villain della favola è una fabbrica chimica che, costruita nella valle, ha distrutto il microclima locale e sta lentamente uccidendo la bella d'erbe famiglia e d'animali.

Si riesce, con una mezza sommossa popolare, a far chiudere la fabbrica, ma la natura non riesce a riprendersi dall’intossicazione: occorre disinquinare i terreni e le acque. E i valligiani risolvono il problema, con l’aiuto di Erinka, professoressa all’Università:

 

Faremo tornate la valle come nuova! - disse Gerardo la sera dopo ai merzellini, riuniti ancora una volta nella palestra. Era deluso e amareggiato come tutti gli altri, ma era fatto così. Non si arrendeva mai. E il luccichio degli occhi di Anita che brillavano di ammirazione nel vederlo pieno di slancio non faceva che spronarlo ancora di più.
- Come faremo? - gli chiesero in coro dal pubblico.
- Chiederemo aiuto a Erinka e agli altri scienziati dell’università. Ci insegneranno a ripulite la terra, e l’acqua che vi scorre, e anche l’aria, se sarà necessario. Ma ci riusciremo!

 

Ecco, menomale, noi scienziati serviamo ancora a qualcosa!

 

Il Seduttore

Il Seduttore

Un racconto di Rossana Girotto

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

15 Dicembre 2013

 

Un testo intrigante, una fiaba che sarebbe piaciuta, per certi suoi contenuti veristi, di strada, a Jack Kerouac e che per i suoi contenuti simbolici avrebbe fatto la felicità di Brjusov, di Blok e di Belyj nella Russia a cavallo del 1800 e 1900. Ecco, questa è proprio la parola-chiave: simboli.

Nella vicenda dell’eterea Scarlett e del sanguigno  Alvise, tutto è simbolo.

Un incontro assolutamente casuale, ma in qualche modo, come dire? predisposto dal destino in sequenze apparentemente banali: una graziosa turista irlandese , un po’ brilla, si aggira per Venezia e incontra nello squero (questa parola andrete anche voi a cercarvela sul vocabolario, come ho fatto io) il gigante buono, ma inguaribilmente macho, il quale non si lascia sfuggire le belle turiste che si avvicinano troppo al suo antro. L’uomo è Seduttore, ma anche Artista, Artigiano, Alternativo e leggermente Asociale.  

Va a finire, come da copione, a letto.

Ma a questo punto, magicamente, la storia muta direzione: con uno scarto di quelli  che solo nei sogni sembrano possibili (e nelle novelle simboliste), il côté

erotico perde ogni valenza e ci ritroviamo in una sacra grotta (avete presente Betlemme?), dove la Maternità celebra la sua epifania. Com’è possibile? direte voi.

Ed infatti il gigante buono ci si incazza, se ne va sbattendo la porta, inveisce contro quella pazza dai riccioli fulvi, le intima di smetterla di vaneggiare su bambini che arriveranno dalla luna, figuriamoci! a rallegrare lo squero.

Da questo punto in avanti, lettori, meditate attentamente ogni parola che andrete leggendo: Rossana Girotto semina con cura i suoi fiori nel giardino simbolista e vi accompagna al sorprendente finale, alla conversione catartica (sullo schema di La Bella e la Bestia); là fuori c’è violenza, che non risparmia neppure i vecchi indifesi, là fuori però ci sono anche gattini abbandonati da salvare, e carrozzine per neonati, arrugginite nell’acqua e nella fanghiglia del canale, da restaurare. Nella grotta di Betlemme si lavora ai ferri per confezionare tutine minuscole, ma anche grossi calzettoni arancioni.

 

Non è poi tanto male la grotta…

 

Cosa succederà alla ragazza

COSA SUCCEDERÀ ALLA RAGAZZA

Un racconto di Rossana Girotto

 

Note di lettura di Carlo Alfieri (2 Dicenbre 2013)

 

 

Lei suscita subito la nostra umana simpatia. Anche lui, all’inizio, ma il suo disvelarsi psicologico conduce pian piano il lettore in uno stato di sorda irritazione: non viene voglia di strangolarlo (non ne varrebbe nemmeno la pena), ma di prenderlo a calci, quello sì, eccome.

 

Lei combatte una battaglia per l’esistenza nella quale si rispecchiano tutte le battaglie delle donne sole, con figli da tirar grandi. Il “loro” uomo è assente, un uomo ombra: ha altro da fare, come spesso accade. Così bisogna trovarsi un lavoro e quando lo si trova si ringrazia il cielo: non si sciala, ma almeno si ha da vivere. La nostra lei ha una figlia adolescente, e così loro due hanno da vivere. Ma in questi tempi calamitosi, il lavoro è più facile perderlo che trovarlo. Durante una assolato e solitario agosto, qualcuno pensa bene di “smontare” l’azienda, di chiudere e scomparire. Due donne si trovano, per sopravvivere, ad un passo dalla mensa dei poveri. Fortunatamente lei non si perde d’animo e caparbiamente afferra al volo un lavoro non proprio entusiasmante, ma è sempre meglio che la mensa dei poveri: andrà a fare la cameriera in un night club.

 

Lui ha moglie e figlio, ha un’agiata posizione economica, ma nell’animo è solo un povero bancario triste e solitario, dove l’aggettivo solitario non è mero epitheton ornans, ma invece assai descrittivo della realtà; la moglie sembra colpita da qualche forma di demenza che le preclude una normale vita di relazione; il figlio lo fa infuriare perché, a quanto sembra di capire, vuole abbandonare il corso di laurea che sta seguendo ( e che è congeniale al padre), per qualcosa di diverso (probabilmente più semplice e/o più breve).   Chi porta la colpa di questa dissennata decisione? “Una femmina… qualche puttanella conosciuta in giro… sappiamo tutti che ragazze ci sono in giro… piccole troie...”. La sua visione del mondo femminile si riduce ad una proposizione della logica assurda: tutte le puttane sono donne, quindi tutte le donne sono puttane.

 

Lei non se la cava male al club; serve ai tavoli, non le sfugge il fatto che le danzatrici che si avvolgono sinuose attorno al palo, sul palco, a volte sono avvolgenti e sinuose anche con i clienti più generosi, ma insomma, non è affar suo. Il suo vero problema è tornare a casa dove l’aspetta la giovane figlia. Alle tre di notte mezzi pubblici neanche a parlarne. Qualche volta una delle ragazze le dà uno strappo, ma a volte c’è qualche cliente che ha la precedenza. In questo caso bisogna aspettare l’aiuto cuoco senegalese, un tipo gentile che non si rifiuta mai di accompagnarla. Ma bisogna aspettare fino alle quattro, quando ha finito di riassettare la cucina.

 

Lui è un abitueé del club. Non va a cercar donne facili, se ne sta tranquillo ad un tavolo, beve qualcosa, ascolta la musica, guarda le ragazze ballare, poi se ne va.

Una sera il vice cuoco non c’è, ragazze che possono darle un passaggio non ce ne sono, a lei non resta che un costosissimo taxi. Ma fortunatamente lui, che ha notato la graziosa cameriera, si offre gentilmente di portarla a casa. Inizia così una specie di sotterraneo corteggiamento , stranamente grigio, sottotono, in accordo col carattere saturnino di lui. Si giunge infine a qualche regalino “per la bambina” e a qualche richiesta di “prestazioni”. Niente di straordinario, il kamasutra non serve; prestazioni a livello elementare. Il benpensante definirebbe questo rapporto squallido, ma io trovo questo aggettivo molto facile da usare presso coloro i quali vivono bene e non hanno bisogno, per sopravvivere, di fare cose “squallide”. No: è soltanto un rapporto esistenziale, nel senso che ognuno dei due serve all’altro per esistere, in modo meno precario o meno infelice.

Vedrete voi stessi come va  a finire.

 

Rossana Girotto, ancora una volta, come spesso accade nei suoi racconti, ci sorprende alla fine con un rovesciamento di valori, con la forza descrittiva di uno scatto d’orgoglio, con il ristabilimento della coscienza che sa riconoscere il limite, oltre ai quali non si può andare.

 

Lui ne esce malissimo, da questa storia. Lei ne esce da donna vincitrice.

 

 

Racconto al Caffè. Macchiato

Racconto al Caffè. Macchiato

 

 

Presentazione della Sezione GIALLO

Avevo scritto, per mantenermi in sintonia col formato dei racconti, un’introduzione di venticinque parole alla sezione Giallo. Questa:
Giallo: morti necessarie al disegno criminoso. Cercare indizi. Indagini. L’assassino astuto.
Giallo: limone. Succo di limone sull’ostrica: si muove, è fresca. Tutto chiaro, infine.

Però poi è prevalsa l’idea di presentare i testi in modo un po’ meno criptico, con qualche riflessione esplicita su significato del racconto “giallo”. Questo traslato derivata dal colore della copertina di una famosa collana settimanale di romanzi brevi, edita da Mondadori a partire dal 1929, che ha spaziato, e spazia ancora ai nostri giorni nostri, tra generi diversi: il poliziesco classico, il poliziesco imperniato sul geniale investigatore privato, il noir, il misterioso, l’intreccio psicologico, o la narrazione violenta.
Quindi la lingua italiana si trova a disporre di un neologismo, “giallo”, che è, in senso semantico, multifunzionale: tuttavia è chiaro che ci deve essere qualche elemento unificante, se il termine deve coprire un filone omogeneo, sia pure articolato nelle sue diverse espressioni. 
L’elemento unificante è il delitto nella specie di assassinio. Qualcuno deve morire, nel romanzo giallo. Qualcuno, per ragioni istituzionali o private, vuole sapere chi ha ucciso, chi è il colpevole. Qualcuno conduce indagini, la polizia, l’investigatore privato o addirittura il brillante indagatore dilettante. 
Dunque: il colpevole si nasconde; dissemina falsi indizi; cerca di far sì che la colpa ricada su qualcun altro. Chi conduce le indagini si pone domande. Per arrivare a “chi”, deve prima chiedersi “quando”, “dove”, “come”, “perché”…
Ecco questi sono gli ingredienti essenziali del giallo: che può assumere la mole di un “Il Nome della Rosa” o di un “Il Codice da Vinci”, fino alla rarefazione estrema dei microracconti che seguono. 
Tuttavia il requisito assolutamente irrinunciabile per un giallo è sempre l’assoluta perfezione del meccanismo logico-deduttivo, che si deve incastrare in una consecutio temporum del tuttto rigida. Il dipanarsi del racconto deve seguire le regole di un meccanismo a orologeria: ogni ingranaggio si deve muovere in accordo con l’ingranaggio che lo precede. 
Che un tale risultato si possa raggiungere in un romanzo di cinquecento pagine mi sembra del tutto possibile: credo sia molto più arduo condensare, sia pure in un lampo di intuizione, sia pure in un flash paradossale, una “storia” plausibile in un racconto di venticinque parole.
I lettori giudicheranno.

 

Racconto al Caffè. Macchiato.

Autori vari.

Edizioni d’Este – Varese

ISBN 978 88 9872 600 4

€ 10,00

 

Il ricavato delle vendite del volume sarà devoluto a C.A.O.S. (Centro Ascolto Operate al Seno)

 

 

Testa o Croce

Testa o croce

di Francesco Manarini e Massimo Rodighiero

[Giallolago, Antologia di racconti gialli a cura di Ambretta Sampietro, Eclissi Editrice, 2013]

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

 

Giustizia non è fatta.  Le Parche non puniscono il reo. Le vittime soccombono, i giusti patiscono, i colpevoli esultano. Un mondo come un negativo fotografico, che sarebbe piaciuto a Friedrich Dürrenmatt.

 

Una specie di quieta disperazione guida i gesti dell’uomo che ha subito un torto inaudito; egli, mentre a fatica tenta di elaborare un lutto assurdo, imprevedibile, viene a sapere che il motivo di tanto dolore non è dovuto ad una tragica, ineluttabile fatalità. Quando ancora lo credeva, possiamo immaginarlo nel tormento dei suoi giorni, a volte capace di potere ancora guardare avanti, a volte persino incapace di respirare.

 

Ma ora non più: egli sa che il principio metafisico delle sue pene risiede in un errore umano. Ma anche un errore egli potrebbe perdonare, tutti possiamo sbagliare e se non c’è dolo, come dice la giurisprudenza, un errore dovuto a imperizia non viene sanzionato troppo duramente. Ma nel suo caso egli sa che il dolo c’è, gravissimo, ingiustificabile, degno della pena di morte. Il protagonista non è un uomo violento, sa che la pena di morte non è contemplata negli ordinamenti giudiziari dei Paesi civili, non vuole vendetta e pensa dunque di rivolgersi al Tribunale per ottenere giustizia. Ecco, giustizia, questa sì, la esige. Ma un avvocato gli dice di lasciar perdere: gli unici testimoni che potrebbero riferire la verità si rifiutano, vilmente, di farlo.

 

Lasciar perdere? Non può. E il lettore comprenderà come in un mondo distopico (un tipo di mondo che la coppia Manarini&Rodighiero conosce e descrive sempre benissimo),  il male si chiami bene e viceversa.

 

Il tragico finale lascia attoniti e con un gusto amaro in bocca.

 

Ma il lago non cambia, un racconto di Rossana Girotto

Ma il lago non cambia

di Rossana Girotto

[Giallolago, Antologia di racconti gialli a cura di Ambretta Sampietro, Eclissi Editrice, 2013]

 

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

 

Arthur Schnitzler si aggira inquieto sotto i cieli così rapidamente mutevoli del grande lago, nei panni di Rossana Girotto, la quale ci regala col suo racconto una bella storia incentrata sul “doppio”, un tema freudiano caro al grande commediografo austriaco.

Il nocciolo centrale racchiude un conturbante gioco di specchi, un riflesso della vittima nel carnefice e viceversa, un apparentemente surreale scambio di personalità che in realtà è molto umano e legato ad umane miserie.

Al contorno, personaggi assai bene caratterizzati: Fulvio, uno scrittore di successo, dalla mente acuta; una coppia, Loris e Stefania, colpiti da una crisi strisciante della quale sembrano non rendersi conto; e poi il “carrozzone che va avanti da sé”, un contenitore di anime perse, una compagnia teatrale “sull’orlo di una crisi di nervi”. (In due righe ho citato Renato Zero e Pedro Almodóvar… devo cercare di contenermi con le citazioni).

 

La Corte dei Cesari: così si chiama la problematica compagnia che in trasferta a Cannobbio, sul lago Maggiore, sta preparando la messa in scena dell’Amleto nel locale nuovo teatro. Le punte sono Cesare, regista, direttore artistico e primo attore, personaggio un po’ appannato che in passato aveva avuto i suoi momenti di gloria; poi Guido, che interpreta sia Polonio sia lo Spettro del Padre; Massimo è l’infelice Principe di Danimarca, Zelda la regina Gertrude e la figlia di Guido, Agnese, interpreta Ofelia.

 

L’Autrice, con lampi d’informazione abilmente intercalati al testo del racconto vero e proprio, ci offre continui spunti interpretativi dell’atmosfera che avvolge la compagnia dei teatranti. S’intravedono amori traditi, ex primedonne sostituite da più giovani amanti, padri furibondi, e sullo sfondo, un’inquietante crisi economica che mina la coesione del gruppo.

Su questo già incerto quadro di détresse psychologique, piomba drammaticamente, in sintonia con Shakespeare, il Delitto. 

 

Love all, trust a few, do wrong to none, ci ammonisce il grande William : beh, qui, detto fra noi, sembra che le cose vadano esattamente all’opposto. Non sarà certo il vostro recensore a dirvi proditoriamente come finirà: il lettore lo scoprirà da solo, con sconcerto e ammirazione per il perfetto meccanismo escogitato dall’Autrice.

 

 

 

Trilogia di S, un racconto di Sabrina Minetti

Trilogia di S

di Sabrina Minetti

[Giallolago, Antologia di racconti gialli a cura di Ambretta Sampietro, Eclissi Editrice, 2013]

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

 

Nella cultura cinese il drago rappresenta simbolicamente la buona sorte, l’esito fausto. In quella occidentale è simbolo del male. In Oriente il drago protegge l’imperatore, in Occidente deve essere combattuto e sconfitto dai santi della Chiesa.

I tre draghi colorati del racconto si dividono le attribuzioni: due di essi sono di matrice cinese e conducono a buon fine le vicende cui sono preposti; l’altro è sicuramente un drago occidentale e prefigura tragedia e morte.

In una Stresa immobile come un palcoscenico, mutano rapidamente quinte e fondali. Vicende diversissime incalzano e incombono sui Carabinieri del comando locale che si trovano alle prese con situazioni inconsuete e stranamente contemporanee. Si sta forse preparando un devastante attentato? Perché una ragazzina tranquilla scompare nel nulla? Quale cupo segreto sta riemergendo dal lontano passato di una coppia che si sta ormai sciogliendo per sempre?

Ma i nostri Carabinieri non sono tipi da smarrire la propria professionalità di fronte al ribollire di questi eterogenei elementi nel calderone della strega (stavo per dire della Stresa…). Indagano con metodo, raccolgono elementi, non lasciano perdere nessuna traccia, per quanto esile. Il paziente lavorio porta alla felice soluzione di due delle storie che sembravano destinate a un ben diverso finale, e possiamo tirare un sospiro di sollievo. Ma uno dei tre draghi, l’Occidentale, non perdona, e costringe la narrazione sotto il suo dominio, ad avvitarsi in una disperata atmosfera mortale. Irrompe sul palcoscenico l’implacabile νέμεσις, la Nemesi, Adrasteia alla quale non si sfugge.

 

Non toglierò al lettore il piacere di scoprire da solo l’avvincente finale, nel quale l’Autrice riconduce magistralmente a sintesi ogni scena ed ogni quadro della triplice rappresentazione teatrale che ha diretto sul suo personalissimo e talentuoso palcoscenico letterario. 

 

 

Econosofia di Massimiliano Comparin

ECONOSOFIA

La vera storia di Babbo Natale

 

Testo teatrale di Massimiliano Comparin

Elaborazione drammaturgica di Angela Dematté

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

6 Ottobre 2013

 

 

 

Un testo teatrale tripartito.

All’inizio viene rappresentato, con evidenza grafica, un potente concetto dell’antichità classica: facilis est descensus averni, è facile la discesa all’inferno. Aldo, il protagonista, si trasforma, come in una proiezione accelerata di immagini consecutive, da ricco tronfio e antipatico a poveruomo ridotto in mutande, ma infine umanizzato e persino capace di meritarsi qualche simpatia.

 

La seconda parte tratta il tema della presa di coscienza. Sotto la specie di una conferenza su temi di economia che la moglie Barbara vuole provare di fronte ad un pubblico immaginario, Aldo comincia a comprendere che gli aspetti economici e finanziari della vita di ciascuno di noi, non sono eventi dominati da un destino cieco e crudele, da un demiurgo pazzo che ti innalza all’estremo benessere o ti sprofonda nella più cupa indigenza.

Ciascuno ci mette del suo.

Ciascuno di noi ha nelle mani una barra del timone e dovrebbe usarla consapevolmente. Legarla con una cima in posizione fissa, basandosi sull’ipotesi che il vento non cambi mai e la vela sia sempre felicemente al vento, è da irresponsabili.

 

Infine arriva il tempo della riflessione e delle valutazioni concrete di ciò che si sarebbe dovuto fare (e non si è fatto) e di ciò che si dovrà fare nel futuro.

Visione realistica della vita, consapevolezza delle complessità legate alla gestione del denaro, elaborazione di linee guida di “buona condotta”: nasce Homo economicus.

Un mio amico che occupa una posizione assai elevata nel sistema bancario inglese, mi disse una volta: “Tratto soldi, un prodotto assai delicato, come le ostriche; costano care e deperiscono facilmente”.

La metafora mi fu subito chiara: grande fatica per guadagnarli, i soldi, e grande difficoltà per non perderli. Insomma: tendono facilmente “ad andare a male”.

Il romanziere Massimiliano Comparin ci dà, con questo suo testo teatrale, non solo una prova della sua poliedrica capacità di scrittura, ma anche un’evidente conferma della sua potente vena di propositore di ciò che è giusto, in contrapposizione a ciò che è sbagliato; sempre però con un felice tocco ironico che spesso sconfina in un gradevole umorismo sottotraccia, quasi ad alleviare la serietà del tema. Come i suoi romanzi, anche il suo teatro mostra, in controluce, la struttura di opera morale, nel senso che a questo termine davano i moralisti francesi del diciassettesimo secolo: noi siamo ciò che vogliamo essere, il nostro destino ci appartiene. Nella nostra condotta c’è una via giusta e una sbagliata: possiamo scegliere, perché l’errore è lì, ben visibile, per chi voglia vederlo.

Rifugiarsi nel comodissimo atteggiamento mentale che la colpa è sempre di qualcun altro, rifiutando di assumerci la nostra parte di responsabilità, condurrà la nostra vita nelle secche della catastrofe. 

 

“Piove, governo ladro!” Può darsi che talvolta le cose stiano così. Però è anche colpa tua che non hai preso l’ombrello.

 

 

Che Bella Vita

Federico Tavola

Che Bella Vita

Mursia Editore, Milano

ISBN 978-88-425-4629-0

€ 16,00

 

Note di lettura di Carlo Alfieri 

 

I francesi, amanti delle definizioni razionali e cartesiane, definiscono il “noir” come una categoria del “roman policier”, cioè del poliziesco classico che però è altra cosa ancora dal “roman d’énigme”, il romanzo d’indagine con poca azione e molte elucubrazioni di una mente brillante, impegnata a risolvere un mistero apparentemente insolubile.

 

Gli elementi irrinunciabili del roman policier sono naturalmente il verificarsi di un crimine, il che presuppone una o più vittime e uno o più colpevoli. Per chiarire come sono andate le cose ci sarà dunque un’inchiesta, condotta dalla polizia, o da un investigatore privato, o da ambedue. Il rapporto tra il poliziotto e l’investigatore privato potrà poi essere di collaborazione o conflittuale.

 

Vediamo adesso le caratteristiche del roman noir: in primo luogo questa definizione implica una visione pessimistica del mondo, popolato e dominato da associazioni criminali, siano esse pura mafia o apparentemente rispettabili grandi gruppi multinazionali od organi governativi deviati o politici corrotti e dove agiscono individui che nel privato operano senza scrupoli, avendo perso ogni riferimento morale. Va da sé che in questo tipo di mondo debba vigere una violenza senza limiti e che quindi il  genere porti con sé molta azione e spesso descrizioni di scene decisamente crude, se non addirittura macabre.

Quando i due generi si fondono insieme, abbiamo, secondo la terminologia francese, un polar, cioè un policier-noir.

 

Ebbene Che Bella Vita, di Federico Tavola, è un magnifico polar e gli ingredienti del genere ci sono tutti, sapientemente dosati per dare vita a un perfetto clockwork ben lubrificato che avvince il lettore fin dalle primissime pagine. Sfondo ideale dell’azione, rapida, incalzante, è una Milano spesso fredda, umida e piovosa che sembra intristirsi quando il protagonista principale, l’investigatore privato Leonardo Lorenzi si trova nei guai e gli regala un raggio di sole quando, come in un contrappunto, alcuni pezzi dell’intrigo cominciano ad andare al proprio posto.

 

L’intreccio, partendo da un suicidio sul quale sembra non possano esserci dubbi, si dipana sapientemente tra colpi di scena e pause di riflessione, regalandoci una galleria di personaggi così ben descritti che dopo un po’ al lettore sembrano vecchie conoscenze. Qua e là, con la perizia di un ottimo cuoco, vengono sparse citazioni e battute al peperoncino, che divertono e allentano per un attimo la drammaticità dell’azione.

Non voglio aggiungere altro per non privare il lettore della sua personale scoperta di questo autore, nuovo e, per così dire, inaspettato nel panorama della giallistica italiana, ma aggiungerò ancora due notazioni: nel romanzo c’è cultura, musicale, letteraria e scientifica. Nel romanzo ci sono alcuni passaggi che regalano autentica commozione. Due caratteristiche che purtroppo sono spesso assenti nei narratori di oggi, e non solo in Italia.

 

 

 

Quando il suo Sguardo

Francesco Manarini - Massimo Rodighiero

Quando il suo Sguardo

Eclissi Editrice

ISBN 88 -95200-33-0

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

 

Arrivato alla fine di ogni lettura, mi chiedo sempre: che romanzo ho letto? Una domanda che tende naturalmente ad inquadrare il genere, dopo aver seguito il dipanarsi dell’intreccio e afferrato il senso della fabula. Non è un esercizio ozioso, perché definire il genere permette di contestualizzare le espressioni stilistiche, i modi narrativi, le metafore e i sottintesi. Permette di afferrare i riferimenti culturali e le allusione o le contaminazioni. Ebbene, arrivato alla fine di questo romanzo, devo confessare che non mi è stato immediatamente facile definirne il genere.

 

Ci sono delitti, ma non c’è l’intervento della legge, non c’è polizia, non ci sono investigatori, né pubblici né privati. Quindi non è un poliziesco. È per certo un romanzo d’azione, ma la ragion d’essere di queste azioni rimane assai incomprensibile per almeno tre quarti del libro: c’è un incalzante succedersi di eventi, apparentemente slegati tra di loro, così come i legami tra i numerosi personaggi che man mano entrano in scena appaiono tenui, appena accennati, sempre che ci sia un accenno. Quindi un mistery?  Tornando all’azione: c’è violenza, brutalità, intrigo, sangue: tratti tipici del noir. Tuttavia, fin dall’inizio si coglie l’aleggiare di un sentore di soprannaturale, assolutamente indefinibile: però c’è. Non sarà per caso un fantasy?

 

Beh, non voglio togliere a chi leggerà questo libro il piacere di scoprirlo da solo. Per conto mio, a lettura terminata, e concluse le mie ipotesi sul genere, è rimasta la convinzione che la struttura narrativa, sorretta da una scrittura nervosa, acida, coinvolgente, serva anche da supporto a una forte metafora d’ordine morale. Si parla infatti non solo del male in sé, come categoria metafisica [il male come assenza del bene di Tommaso d’Aquino], ma dell’uso che del male si può fare, dei vantaggi che dal male si possono trarre. Se un’alterazione psichica può diffondersi come una malattia infettiva, producendo altre alterazioni, che possono essere convogliate per l’attuazione di un “unico disegno criminoso” come recita la giurisprudenza, ecco che ci troveremmo di fronte ad una razionalizzazione del male come strumento attuativo progettuale. Questo, credo, ci vuole indicare il libro: se ne vogliamo la controprova, proviamo a pensare al genocidio nazista condotto nei lager: un’infezione morale trasmessa dal capo paranoide, giù per li rami, attrverso le gerarchie del potere, fino agli insignificanti esseri umani, il cui compito era di tenere accesi i forni o di scavare le fosse comuni. Vi ricordate di Hannah Arendt e la sua famosa frase “la banalità del male”? Lei si riferiva ad Eichmann, e voleva intendere che forse il male non è solo e semplicemente la supina ed acritica accettazione di ordini folli emanati dall’alto, ma anche il compiaciuto convincimento che l’esecuzione di tali ordini faccia parte dei propri doveri di fedeltà ed obbedienza, due concetti che malgrado il contesto omicida, gli esecutori considerano virtuosi.

 

Concluderò queste mie note di lettura: Quando il suo sguardo è un romanzo che dopo avermi avvinto con la sua travolgente sequenza di accadimenti, abilmente condotti a sintesi nelle ultime pagine dagli Autori, mi ha lasciato temi da elaborare che andavano al di là della trama “di superficie”, godibile e fruibile senza fatica. Chiudere un libro e continuare a pensarci non capita tutti i giorni.

 

 

I Cento Veli

Massimiliano Comparin

I Cento Veli

Baldini & Castoldi, Milano 

€ 9,90

 

Ho finito di leggere I Cento Veli, di Massimiliano Comparin (Baldini & Castoldi, Milano). L’ho letto in tre giorni, cioè molto rapidamente in relazione al tempo che posso dedicare alla lettura e ciò già dimostra che il libro prende e trascina il lettore verso la fine: ottima cosa, per un romanzo.

Tuttavia, se mi chiedete che “genere” di libro sia, mi fate una domanda alla quale non è facile rispondere.

 


Un giallo? Beh, sì, c’è una trama poliziesca, in sottotraccia, che emerge di tanto in tanto, ma non è l’asse portante. Infatti alla fine, anche se c’è un assassinato non emerge l’assassino, se non per ipotesi e sottoipotesi; ci sono persone che scompaiono, e che poi ricompaiono, vive o morte, ma non tutte. La Verità stenta a farsi strada, offuscata com’è da I Cento Veli, per l’appunto.

Allora è un romanzo storico? Non direi: c’è sicuramente una robusta impalcatura storica a sostegno della narrazione, ma solo in funzione dell’inquadramento temporale dei fatti narrati. Infatti la storia si dipana nella contemporaneità e si comprende sullo sfondo storico/geografico riferito alle vicende di Trieste, dell’Istria e della ex Jugoslavia negli anni che vanno dal 1940 al 1947.

Quindi come inquadrare I Cento Veli? Mi sono formato la convinzione di trovarmi di fronte a un’opera morale, nel senso che il vero messaggio del testo giace sotto la “fabula” e “l’intreccio”, per dirla con Umberto Eco.

Il messaggio ci parla di crudeltà e di terrore applicati da un gruppo di oppressori contro un gruppo di oppressi, con la straordinaria circostanza che i due gruppi per più di una volta si scambiano i ruoli, mostrando come sia facile trasformarsi da carnefice in vittima e viceversa. E questo messaggio si espande, si dilata, dal “particolare” narrativo all’universalità della società umana, con tutte le assurde crudeltà di cui è stata capace nel corso dei millenni.

Insomma un libro da leggere, ma non pensate di “divertirvi”. Pensate piuttosto di prepararvi a meditare.

Ofelia sapeva nuotare

Rossana Girotto

Ofelia Sapeva Nuotare

Illustrazioni: Sarah Sudcowsky

Rswitalia Editore

 

Note di lettura di Carlo Alfieri

 

 

Sogni. Ricordi. Sogni ricordati o ricordi sognati?

Questi racconti non vanno letti separatamente, ma come frammenti di un unico racconto, come le figure di un caleidoscopio che prismi e specchi ricompongono in infinite immagini, partendo da pochi elementi di base: c’è una ragazza dai capelli rossi e gli occhi verdi, ci sono l’acqua, il vento e la neve, ci sono pensieri d’amore e pensieri di morte, atmosfere magiche di un’Irlanda mitica, e un’antico desiderio di scrivere, di esprimere con parole scritte pensieri ineffabili. Ma la fanciulla ha anche ricordi più concreti: una nonna affettuosa che la incoraggia sulla via della  scrittura, un ragazzo (un “primo amore” continuamente rielaborato) che entra ed esce dai racconti con passo lieve,  e un mondano e umano desiderio di raggiungere, più snella, una taglia ideale.

 

La scenografia si sposta continuamente tra luoghi d’acqua da cui emana un onirico senso d’incantamento: l’Irlanda e i suoi fiumi, il lago, Venezia, l’isola di San Lazzaro degli Armeni in laguna.

Elfi. E personaggi umani così immersi nella natura, da diventare essi stessi elementi, acqua foglie terra. La protagonista pensa alla morte, ma non pensa di uccidersi: pensa alla propria morte, nel senso che le piace immaginarsi morta. Un artificio intellettuale per liberarsi, almeno momentaneamente dal corpo, e vivere come puro spirito. Una visione ontologica degna di Plotino:

“Per separarsi così dal corpo, l’anima  si raccoglie in se stessa, quasi da luoghi diversi, completamente impassibile, considerando come semplici sensazioni i piaceri inevitabili; guarisce ed evita i dolori solo per non essere inquietata, né sente più le sofferenze, o, se ciò non è possibile, le sopporta serenamente e le diminuisce col non condividerele…”

[Plotino, Enneadi, I 2, 4, Rusconi Editore]

 

La fanciulla dai capelli rossi e dagli occhi verdi, riflette sull’amore e s’immerge in una visione d’amore mercenario, dove non si scorda mai l’ultimo amore, finché non diventa il penultimo e del primo s’è persa ormai ogni traccia; immagina di terminare la propria vita come un angelo che s’invola da una finestra, per punire non se stessa, ma l’uomo che l’ha umiliata; crede d’impazzire per la passione di scrivere e il terrore di non essere compresa; si fa ghiaccio prima di precipitare in un fragore di taglienti cristalli, nella neve che l’accoglie come parte di sé.

 

Vive molte vite la nostra protagonista e ce le racconta, en travesti, ora come eroina di una saga irlandese, ora trasformata in uomo che scrive d’amore, di un amore mai conosciuto, ora come bimba che ascolta incantata le favole della nonna e che un giorno si ripromette di scrivere, lei stessa, favole nuove.

 

La promessa è stata mantenuta, con un linguaggio ricco di coloriture naturalistiche e, insieme, asciutto ed essenziale nel delineare situazioni e personaggi.  Una prosa affascinante e coinvolgente; alla fine la vostra mente né uscirà arricchita magicamente di nuova poesia.