A proposito della controra

Controra è il termine con cui, nel centro-sud dell’Italia, si definisce lo spazio-tempo racchiuso nelle caldissime prime ore pomeridiane dell’estate: ci si deve astenere dal frequentare luoghi pubblici ed è opportuno esiliarsi in casa propria, le imposte chiuse, in penombra e in silenzio. Si può sonnecchiare o dormire, ma non è la sola attività prevista; anzi, si può pensare, leggere anche poche pagine e meditare su ciò che si è letto, prendere qualche appunto… insomma dedicarsi all’ozio attivo, un tipico ossimoro della controra, dove l’otium impone una calma riflessiva al corso dei propri pensieri. 

Il gioco degli scacchi

Riflessione della sera.

Scacchi: gioco a due competitivo che mima gli eventi della vita reale.

Qual è l'interpretazione della mossa del cavallo, una delle mosse più difficili del gioco?

Vediamo, potrebbe essere questa: uno promette una cosa a qualcun altro, una cosa realizzabile in tre passaggi. L'altro accetta e il proponente fa il primo passo in avanti.

Grande!

Fa il secondo passo in avanti. Incredibile, ci siamo quasi, manca poco!

Poi però scarta di lato, e il terzo passo rimarrà per sempre incompiuto. Il peggio che potesse capitare.

Ah, la mossa del cavallo! Astuta e devastante, questo è.

Poemi notturni

 La notte scorsa in un momento di creatività onirica, ho composto questo poemetto:

 

“Le caprette in frotta

balzano di fratta in fratta

per mangiare in fretta

la buona frutta fritta.”

 

Poi, per mia curiosità, ho chiesto a Google e Reverso di tradurre in inglese ed ecco i rispettivi risultati, abbastanza buoni:

 

The goats in droves

 jump from fratta to fratta

 to quickly eat

 the good fried fruit. 

 

The goats in droves

 jump from fracta to fracta

 to eat quickly

 good fried fruit.

 

Evidentemente il problema per questi traduttori automatici è la parola “fratta”, non comune neppure per l’italiano. Ecco la definizione del dizionario Treccani:

 

“fratta s. f. [prob. dal gr. mediev. ϕρκτη «siepe»]. – Macchia intricata di pruni, sterpi, ecc., e il terreno stesso, di solito scosceso e impervio, che ne è coperto; nell’uso region. anche siepe, cespuglio: Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta (Leopardi); Sbuca il can dalla f., come il vento (Pascoli); lungo le f. in fiore (D’Annunzio). Nell’uso roman., andare per fratte, con riferimento a una coppia, appartarsi per amoreggiare; con altro sign. fig., tosc., essere o andare per le f., andare in rovina, trovarsi in gravi difficoltà economiche.”

 

Il vocabolario italiano-inglese Collins riporta una traduzione, per “fratta" insieme a numerosi sinonimi:

Fratta= thicket (bush, grove, nel senso di boscaglia) 

Uomini e scimmie

Televisione e web abbondano di programmi sull'evoluzione dell'uomo, inteso come specie, e sui rapporti che intercorrono tra mondo umano e mondo animale.
La tendenza, buonista e animalista, è quella di dire che in fondo noi siamo animali tra gli animali, non molto diversi da loro (il ché per certi aspetti è vero) e che addirittura tra regno animale e regno vegetale non c'è poi tutta questa gran differenza. Solo qualche sequenza diversa nella fatale molecola del DNA.
Così ci fanno vedere scimmie che ricordano sequenze numeriche, elefanti che, pennello e proboscide, dipingono ed altre amenità del genere. Anche i piselli nella loro crescita non seguirebbero solo costrizioni chimico-fisiche, ma userebbero una certa causalità basata sull'intelligenza.
Ora, non è mia intenzione discettare sull'intelligenza del pisello, ma c'è un limite a tutto. Noi umani evidentemente non ci piacciamo e cerchiamo di mimetizzarci tra le altre specie viventi. Ma la verità è che noi umani siamo meravigliosamente e spaventosamente diversi. Progettiamo e realizziamo spedizioni nello spazio. Progettiamo e realizziamo armi terrificanti. Inventiamo farmaci e distruggiamo le foreste.
La prova regina dei sostenitori della teoria che, in fondo, siamo solo un'altra specie di scimpanzé un po' meno pelosi, viene proprio da una delle più alte conquiste umane, il sequenziamento del genoma. Si proclama, tra l'esultanza generale, che il genoma dello scimpanzé differisce da quello umano solo dell'1,6%.
Ebbene, vi invito a questo esperimento mentale: immaginate di trovarvi in un campo di volo e di avere davanti a voi due aeroplani esattamente e assolutamente identici, salvo che uno ha le eliche e l'altro no. Certamente differiscono tra di loro per meno dell'1,6%, però con una conseguenza non trascurabile: uno vola e l'altro resta a terra.

Una vita in fant

Traccia per una “Histoire de vie” alla maniera di Guy de Maupassant.

 

"Quando nacque, nella Vallée du Lys, era un bel fantolino biondo, ma la mamma lo abbandonò alla ruota.
A vent'anni fu chiamato alle armi e combatté valorosamente come fante, ma non gli diedero mai una medaglia.
Poiché era piuttosto magro, cercò un lavoro come fantino, ma non vinse mai una corsa.
A cinquant'anni cercò di sedurre una fantesca, che inviperita gli ficcò una coltellata nel petto.
Adesso fa il fantasma in un castello della val d’Aosta, e finalmente è diventato amato, famoso e rispettato".

Il presente di Planck

Il fisico tedesco Max Planck (1858 – 1947), è stato l’iniziatore della fisica quantistica e premio Nobel per la Fisica nel 1918. Amava evidentemente i numeri piccoli, dato che fu l’ideatore di un sistema di misure noto come Unità di misura di Planck, che comprende tempi e distanze così piccole da non potere essere neppure concepite dalla mente umana.

 

In fisica il tempo di Planck è l'unità naturale del tempo. Il tempo di Planck è il tempo che impiega un fotone che viaggia alla velocità della luce per percorrere una distanza pari alla lunghezza di Planck. È considerato, ad ora, il più breve intervallo di tempo misurabile. Il tempo di Planck è dunque il "quanto del tempo", cioè la più piccola misurazione del tempo che abbia qualche significato secondo la scienza attuale. Il tempo di Planck vale 5,391 × 10−44 secondi.

La lunghezza di Planck può essere considerata come un'unità naturale, dal momento che viene ricavata a partire da tre costanti fisiche fondamentali: la velocità della luce, la costante di Planck e la costante di gravitazione universale. Utilizzando le leggi attualmente note della meccanica quantistica e della gravità, la lunghezza di Planck è la migliore stima per il concetto di lunghezza minima. Possiamo dire che anche le distanze, nel sistema di Planck, sono quantizzate. La lunghezza di Planck vale 1,616 × 10-35 metri

 

Ricordando il significato matematico dell’esponente negativo, vediamo che il tempo di Planck si può esprimere anche come 5,391 diviso 10 seguito da 43 zeri: cioè 53,91 miliardesimi di miliardesimi di miliardesimi (e così via per altre undici volte) di secondo. Un “quanto” di tempo: alquanto breve, direi, ma sotto al quale non si può andare.

 

Se vi domandate perché stia pensando a queste questioni vi dirò che ieri notte, pensando, come faccio di solito tra mezzanotte e le tre del mattino, al passato e al futuro, mi ha colto la rivelazione che possiamo dare un significato al presente usando le unità di misura di Planck. Infatti sappiamo bene che il tempo è come una macina che inghiotte futuro e lo trasforma in passato: ma è molto difficile definire il presente, perché non facciamo in tempo a pensarlo che è già divenuto passato. Ma allora quanto dura il presente? Mi sembra di poter dire che la durata del presente sia precisamente il tempo di Planck, visto che non ha nessun senso una durata di tempo inferiore a questa. Ma, dato che ci è impossibile visualizzare nella mente un intervallo temporale così breve, riflettere sul presente è un esercizio vano e non ci resta che pensare e riflettere sul passato e sul futuro, lontani o vicinissimi che siano.

Personalmente amo i passati lontani e i futuri vicini, ma questo dipende probabilmente solo da ragioni anagrafiche.

 

 

[Fonte dei dati scientifici: Wikipedia]

Cosmogonie

Tutte le civiltà umane hanno elaborato i loro “testi sacri” e tutti i testi sacri contengono una cosmogonia, vale a dire una raccolta, spesso in forma di poema, che narra i miti, le tradizioni,  l’interpretazione dottrinaria dell’origine del cosmo.

Nell'antico Giappone la religione naturale e autoctona, nota come shintoismo, non ha un vero e proprio testo sacro, ma esiste una raccolta, il Kojiki, che dà conto della creazione dell’universo e della Terra e di tutto il pantheon shinto.

Il Kojiki riporta in forma mitica una serie di eventi che iniziano dal Caos primordiale: il Caos comincia a condensare, ma:

“La forza e la forma non si erano ancora manifestati, e nulla aveva un nome, nulla era fatto, chi poteva conoscere la sua  dimensione?

Tuttavia il Cielo e la Terra dapprima si separarono e i tre Dei compirono l'inizio della creazione; si svilupparono l'Essenza  Passiva ed Attiva ed i Due Spiriti divennero gli antenati di  ogni cosa. Dall'oscurità emerse la luce...”

 

E via dicendo e spiegando come, alla fine, furono creati tutti gli esseri spirituali (gli dèi) e le cose materiali.

Un testo che ci è certamente più familiare, la Bibbia, inizia come noto con:

“In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce! E la luce fu.»”

 

Cambiando continente, il Popol vuh, libro sacro del popolo maya-quiché, ci presenta questo incipit:

Questo è il racconto di quando tutto era fermo, tutto calmo, in silenzio; tutto senza movimento, tranquillo, e la distesa del cielo era vuota.

Questo è il primo racconto, la prima narrazione.

Non v'era né uomo né animale, né uccelli, pesci, crostacei, alberi, pietre, caverne, crepacci, erbe, foreste: v'era solo il cielo. L superficie della terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di cielo... nulla esisteva.”

 

Alla straordinaria uniformità formale di queste cosmogonie, non fa eccezione quella indiana che si basa sui sacri testa Veda e Upanisad, ma con una sorpresa finale. Riporto per esteso il testo tratto da Rig-Veda, 10, 129:

 

“1. Allora non c’era il non essere, non c’era l’essere; non c’era l’atmosfera, né il cielo che è al di sopra. Che cosa si muoveva? Dove? Sotto la protezione di chi? Che cosa era l’acqua inscandagliabile, profonda? 
2. Allora non c’era la morte, ne l’immortalità; non c’era il contrassegno della notte e del giorno. Senza aria respirava per propria forza quell'Uno; oltre di lui non c’era nient’altro. 
3. Tenebra, ricoperta da tenebra, era in principio; tutto questo universo era un ondeggiamento indistinto. Quel principio vitale, che era serrato dal vuoto, generò se stesso come l’Uno mediante la potenza del proprio calore (Tapas). 
4. Il desiderio (Kama) nel principio sopravvenne a lui, il che fu il primo seme della mente. I saggi trovarono la connessione dell’essere nel non essere, cercando con riflessione nel loro cuore. 
5. Trasversale fu tesa la loro corda; vi fu un sopra, vi fu un sotto? Vi erano fecondatori, vi erano potenze: sotto lo stimolo, sopra l’appagamento. 
6. Chi veramente sa, chi può spiegare donde è originata, donde questa creazione? Gli dèi sono posteriori alla creazione di questo mondo; perciò chi sa donde essa è avvenuta? 
7. Donde è avvenuta questa creazione, se l’ha prodotta o no, Colui che di questo mondo è il reggitore nel cielo supremo, egli certo lo sa, o forse non lo sa”. 

[Inni del Rig-Veda, a cura di V. Papesso, Editrice Astrolabio-Ubaldini, Roma]

 

Dobbiamo convenire che il versetto 7 di questo inno è veramente stupefacente e ci sorprende per la sua audacia: neppure il supremo reggitore della Creazione è veramente certo di esserne il creatore. Egli certamente sa da cosa deriva la Creazione...o forse neppure Lui lo sa?

 

Questa ineffabile ammissione di impossibilità a conoscere veramente fino in fondo l’essenza, l’origine e la natura dell’universo, la ritroviamo ancora oggi se pensiamo a questo paradosso: supponiamo di avere scoperto tutte le leggi fisiche, tutte le strutture, tutti i funzionamenti dell’universo, resterà alla fine una domanda ineludibile: “Perché c’è l’universo?”, una domanda che si ferma davanti al mistero insondabile. Una domanda che si pose, senza poter rispondere, anche una delle menti più profonde dei nostri tempi:


"Viviamo in un mondo che ci disorienta con la sua complessità. Vogliamo comprendere ciò che vediamo intorno a noi e chiederci: Qual è la natura dell'universo? Qual è  il nostro posto in esso? Da che cosa ha avuto origine   l'universo e da dove veniamo noi? Perché l'universo è così come lo vediamo?"

 

Stephen Hawking

[Stephen Hawking ‑ Dal Big Bang ai buchi neri-Breve storia del tempo, Rizzoli Libri S.p.A., 1990. Milano]. 

 

Un pensatore francese, Jean Guitton, in un altro contesto, ponendosi di fronte al mistero della morte, scrisse:

Tout au long de ma vie, ma pensée a été occupée par un problème qui se pose à tous: le sens de la vie et de la mort.

C'est, au fond, la seule question à laquelle se heurte l'animal pensant depuis l'origine: l'animal pensant est le seul qui enterre ses morts, le seul qui pense à la mort, qui pense sa mort.

Et pour éclairer sa voie dans les ténèbres, pour s'adapter à la mort, cet animal si bien adapté à la vie n'a que deux lumières: l'une s'appelle la religion, l'autre se nomme la science.

 (Durante tutta la mia vita, il mio pensiero è stato occupato da un  problema che si  pone a tutti: il senso della vita e della morte. È, in fondo, la sola questione contro la quale urta l'animale pensante fin dalla sua origine: l'animale pensante è il solo che sotterra i  suoi morti, il solo che pensa alla morte, che pensa la sua morte. E pe rischiarare la sua via nelle  tenebre, per adattarsi alla morte, quest'animale così ben adattato alla vita, non ha che due luci: l'una  si chiama religione, l'altra scienza).

[Jean Guitton: Dieu et la science. Editions Grasset & Fasquelle, Parigi 1991].

 

Ecco, penso che la risposta che Guitton si dà di fronte al mistero della morte, si possa bene applicare al mistero dei misteri: l’universo.

La religion… la science.

L’uomo religioso riconduce tutto a sintesi nell’alveo della sua fede.

L’uomo di scienza, di fronte alla domanda “perché c’è l’universo?” può solo rispondere con una tautologia: “Non lo so. C’è perché c’è”.           

Fernando Pessoa

Quando Fernando Pessoa morì nel 1935, la sua morte non passò inosservata a Lisbona e in qualche circolo intellettuale altrove, ma non ci furono importanti commemorazioni né pubblici elogi. Pessoa non era ancora diventato una figura grande e centrale della poesia europea del ‘900. La ragione è semplice: pubblicò poco, pochissimo in vita, e condusse sempre un’esistenza riservata, tenendosi nell'ombra.

Lasciò un baule contenente più di ventisettemila testi, che fu ritrovato otto anni dopo la sua morte. Generazioni di studiosi da allora hanno cominciato a catalogare, ordinare, sistemare la sua opera e un flusso ininterrotto di traduzioni e pubblicazioni si è prodotto fino ai giorni nostri.

Un suo pensiero che ne rivela pienamente la personalità: “Ogni uomo che meriti di essere celebre sa che non ne vale la pena”.

Alcuni versi che ho letto due anni fa, in un luogo e in un tempo di  tristezza:

“La morte è la curva della strada,

morire è solo non essere visto.

Se ascolto, odo il tuo passo

Esistere come io esisto.

 

La terra è fatta di cielo.

La menzogna non ha nido.

Mai nessuno s’è perduto.

Tutto è verità e cammino”.

 

[Fernando Pessoa, Poesie. Passigli Editore e Antologia Corriere della Sera, 2004]

 

 

Ritratto di Fernando Pessoa, autore João Luiz Roth

La foglia di fico

Accusare i “mercati” di perfidi attacchi contro questa o quella economia in crisi, è l’ultima patetica risorsa di chi governa male, semina vento e raccoglie tempesta.

Accusare i “mercati” è come accusare delle proprie sventure il “Grande Zot” di B.C., la famosa striscia di Johnny Hart.

I ”mercati” non sono un’entità definibile e razionalmente collocabile nel tempo e nello spazio, ma rappresentano una miriade di istituzioni bancarie e finanziarie, ministeri del tesoro, fondi d’investimento, fondi pensione, gestori di patrimoni pubblici e privati, consulenti specializzati in questioni economiche, e via dicendo, che fanno precisamente quello che sono chiamati a fare: difendere e possibilmente aumentare i patrimoni loro affidati, comprando valute e titoli  forti, e abbandonando quelli deboli prima che diventino carta straccia; disinvestendo nei paesi traballanti e investendo in paesi solidi.

Tutti gli apprendisti stregoni che governano male e combinano disastri per finanziare iniziative dissennate, che siano guerre o politiche demagogiche economicamente insostenibili, si sono sempre inventati un loro Grande Zot per giustificare la propria balordaggine di fronte ai loro popoli.

Ricordate? Hitler se la prese con gli ebrei, Mussolini s’inventò la perfida Albione, e più recentemente tutti i governi bancarottieri del dopoguerra hanno accusato di bieche e oscure manovre “i mercati”: ultimo in ordine di tempo (agosto 2018) Erdogan in Turchia.

 

Ma, ripeto, mi sembra una giustificazione ridicola: pensano di nascondersi dietro la foglia di fico, ma hanno in mano una fogliolina di tè.

Nuova politica italiana

Fin dalla sua prima apparizione del Movimento 5 Stelle mi colpì il nome.

Il mio primo ricordo elettorale risale al referendum costituzionale del 1946 (non che non abbia ricordi ancora più lontani, ma semplicemente prima di quella data le votazioni, definite dal capo del governo pro-tempore “ludi cartacei”, non erano permesse).
Ecco dunque, 1946: da allora l’Italia ha avuto un profluvio di elezioni, politiche, amministrative, regionali, referendum. Le forze in lizza erano tutte caratterizzate da nomi che richiamavano in qualche modo concetti riferiti a semantemi politici universali, e si indirizzavano a gruppi che si riconoscevano per appartenenza ideologica, sociale, o addirittura geografica, valga l’esempio “Lega Nord”. 
Quindi le parole chiave che definivano i partiti erano: “democrazia”, “libertà”, “eguaglianza”, “cristianità”, “socialismo”, “comunismo”, “repubblica”, “monarchia”, “progresso”, “radicalismo”, “rivoluzione”, “giustizia”, “lotta”, “popolo”, “internazionale", “operai”, “pensionati”... e via elencando.

 

Il Movimento ha rotto la prassi in modo brutale e, a giudicare dai risultati, agli italiani la cosa non è dispiaciuta: alle ortiche la paccottiglia ideologica e avanti tutta con un nome da ristorazione pubblica: “Cinque Stelle, trattoria con alloggio”, “Quattro Lune, locanda con cucina”, “Tre Soli, osteria con gioco delle bocce”.
Be’, che dire? Bravi, hanno visto giusto e hanno preso le esatte misure dell’elettorato.

L'amore come metafora ferroviaria

Buon San Valentino a chi viaggia felice su un Super FrecciaRossa
Buon San Valentino a chi guarda il panorama da un FrecciaArgento
Buon San Valentino a chi fa le parole crociate su un FrecciaBianca
Buon San Valentino a che ha perso il treno per un soffio
Buon San Valentino a chi si trova su un treno fermo, che non va e non si sa perché
Buon San Valentino a chi è sceso da un regionale troppo lento e aspetta il prossimo treno
Buon San Valentino a chi aspetta il taxi per andare in stazione
Buon San Valentino a chi sta in stazione a guardare i treni che passano

La blonda

La blonda

Cosa c’è di meglio di un piovoso pomeriggio di domenica post-Epifania per affrontare e risolvere dubbi esistenziali che vi accompagnano da anni? Ecco il mio dubbio esistenziale di oggi: cos'era quel piatto che la mamma qualche volta preparava in casa, scelto da suo ricettario invernale? Ricordo che era un salume, molto saporito e gustoso, servito con purè di patate e che la teneva occupata in cucina per tutta la mattina. Ricordo anche che la mamma lo chiamava “blonda”.

La ricerca su internet non dava risultati; ricordando però che mia madre, mantovana di nascita, aveva poi sviluppato da ragazza le sue conoscenze gastronomiche in provincia di Ferrara, ho chiesto a Google “salumi tipici ferraresi”. Ne è uscita tra le altre specialità “la salama da sugo” e la ricetta per cucinarla (vedere immagini qui sotto). Era proprio lei, ne sono certo!
Restava da risolvere la questione del nome: forse blonda è una voce dialettale? No, al contrario voce dotta. Ecco la definizione del Dizionario Garzanti:

Blonda
[blón-da] n.f.
pl. -e
merletto finissimo di seta
Etimologia: ← dal fr. blonde ‘bionda’, perché fatta in origine con la seta cruda.

Esaminiamo adesso la ricetta per cucinare la blonda, presentata da Fabio De Vecchi, dell’Ufficio Informazioni della Provincia di Ferrara:

“Prima di tutto!
Come operazione preliminare, la salama va messa a bagno in acqua tiepida per una notte, onde ammorbidire le incrostazioni esterne, che vanno poi delicatamente spazzolate.
Immersione
Deve quindi essere immersa, meglio se avvolta in una pezzuola di telo fine, in una pentola d’acqua ma senza farle toccare il fondo: uno stecco di legno appoggiato ai bordi sosterrà la salama col suo stesso spago. L’acqua della pentola va fatta bollire a fuoco lento per oltre 4 ore, rabboccando quando è necessario, ma senza far perdere il bollore. La vescica non deve spaccarsi: il suo sughetto si sperderebbe immediatamente. Se si preferisce la cottura a bagnomaria, il tempo va allungato.
Come si avvolge la salama
Per avvolgere la salama, si possono anche utilizzare gli speciali sacchetti in plastica da cottura. Una volta cotta la si libera dallo spago e la si incide all’apice, ricavando un’apertura che permetta di raccogliere il morbido impasto col cucchiaio.
Se si preferisce servirla fredda si suggerisce di tagliarla a spicchi
L’ideale, comunque, è presentarla caldissima, accompagnata da purea di patate.”

Ho dunque ragione di credere che la pezzuola di telo fine di cui si parla nella ricetta venisse chiamata localmente “blonda”, cioè una pezza di seta cruda, e che per traslato questo termine sia passato a indicare l’intero salume, insomma la parte per il tutto. 

Erotismo

Mi sono sorpreso a meditare sul significato di immagine sexy e anche, più precisamente, di immagine erotica. Tanto per restringere un po’ il campo, essendo io uomo ed eterosessuale, considero immagini sexy e/o erotiche quelle che rappresentano donne.

Chiarito il punto, ecco il seguito dei miei pensieri. In primo luogo credo che l’immagine di una donna sia sexy di suo, per il semplice fatto di rappresentare una femmina, soggetto erotico per definizione, tenendo conto della premessa di cui sopra.

Quindi mi sono reso conto più precisamente (anche se in qualche modo l’ho sempre pensato) che il profluvio di tette ipertrofiche e di culi ipersferici che martellano il mondo dell’immagine contemporanea potrà anche essere sexy, ma non è erotico. La mia idea di erotismo, parlando di immagini femminili, si riduce a questo: quando vedo la foto, deve venirmi in mente questa considerazione: “Come mi piacerebbe conoscerla! Qualcuno me la potrebbe forse far conoscere?”

Direte voi: alla tua età ci può stare, una specie di contemplazione platonica del bello. L’obiezione è valida, pero non è così: pensavo la stessa cosa a vent’anni.

 

Per far capire meglio cosa voglio dire pubblico queste immagini.

L'idraulica degli inetti

In Italia succedono cose impensabili, che in altri paesi non succedono. Pensate: vi sono periodi dell’anno in cui piove poco e altri in cui piove molto. Lo stranissimo fenomeno rende perplessi i nostri governanti che non sanno che fare. Così quando piove poco, veniamo informati che i fiumi sono in secca, che i livelli idrometrici dei laghi scendono in modo preoccupante e che la siccità ha ormai distrutto il cinquanta percento dei raccolti. Poi, qualche tempo dopo comincia a piovere molto. I laghi tracimano, i fiumi straripano e allagano le campagne, l’altro cinquanta percento dei raccolti va così perduto. L’acqua crea frane e devastazioni in collina e nelle città. Crollano i ponti, anzi no: da noi i ponti crollano da soli, indipendentemente dalla siccità e dalle alluvioni.
Qualcuno suggerisce che si dovrebbero costruire invasi, bacini di riserva, serbatoi di raccolta, dove l'acqua, opportunamente convogliata da un sistema idrogeologico ben funzionante, può essere accumulata nei periodi di piogge persistenti. Acqua che invece di produrre devastazioni sarebbe invece disponibile nei periodi di siccità per l’agricoltura. 
Ma questi argomenti sembra che non interessino a nessuno, tra i nostri governanti.

 

Per tutta la sua durata la Repubblica di Venezia elesse un funzionario pubblico, dotato di ampi poteri, per il controllo dei fiumi e della laguna. Si chiamava Magistrato alle Acque e, come scrisse Indro Montanelli, il doge lo presentava al popolo con queste parole: “Peséo, paghéo, ma s'el sbaglia impichéo.”

Valutatelo, pagatelo. E se sbaglia, impiccatelo.

 

Se il precetto valesse ancora, la nostra bella penisola sarebbe fittamente coperta di forche e patiboli.

La duchessa non scherza!

5 maggio 2017, RAI Canale 5

Col gatto Leo ho assistito ad un bellissimo Don Carlo in diretta dal Maggio Musicale Fiorentino, diretto da Zubin Mehta.
Regia di Giancarlo Del Monaco, allestimento scenico di Carlo Centolavigna e costumi di Jesús Ruiz: tutti bravissimi. Grandi voci: Don Carlo Roberto Aronica, Elisabetta di Valois Julianna Di Giacomo, Filippo II Dmitry Beloselskiy, Rodrigo, marchese di Posa Massimo Cavalletti, Principessa di Eboli Ekaterina Gubanova, Il Grande Inquisitore Eric Halfvarson,Un frate Oleg Tsybulko.
Notevole la chiarissima pronuncia italiana dei numerosi interpreti stranieri, segno di grande professionalità. Julianna Di Giacomo è una donna dal fisico imponente, con una voce limpida e potente.
Piccola notazione storica: traggo da Wikipedia che la principessa di Eboli del dramma originale di Schiller è un personaggio storico. Si tratta di Doña Ana Mendoza de la Cerda, Principessa di Eboli, Duchessa di Pastrana; Cifuentes, 29 giugno 1540 – Pastrana, 2 febbraio 1592). 
Era considerata una delle più belle donne di Spagna, nonostante avesse perso un occhio durante un duello con un paggio quando era giovane.
Ecco, confesso che non mi aspettavo che le bellissime duchesse spagnole, nel '500, facessero duelli con i paggi, o meglio: duelli sì, ma d'altra natura, nei quali di solito non si rischiano gli occhi.

 

Scemenze televisive

Sulla quarta luna di Saturno, Encelado, la sonda Cassinis ha trovato sorgenti geotermali a circa quattro chilometri sotto la superficie ghiacciata. In queste sorgenti sono presenti idrogeno molecolare, anidride carbonica e acqua. Condizioni analoghe esistevano sulla Terra quattro miliardi di anni fa e queste sorgente geotermali sono simili a quelle scoperte nel 2000 sul fondo dell’Oceano Pacifico. In questi luoghi vi sono condizioni (componenti chimici, energia chimica, energia termica) che potrebbero essere favorevoli all’innesco di forme di vita primigenie. Fin qui possiamo dire: molto bene e molto interessante, complimenti agli scienziati e ai tecnologi che hanno condotto la missione.

 

Ma poi, con la solita sciatteria ignorante con cui i programmi d’informazione televisiva propagano le notizie, veniamo a sapere che “è stata trovata la vita su un pianeta del sistema solare” e una poveretta di giornalista ha persino affermato (sic!) che “da oggi siamo un po’ meno soli nell’universo”.

 

Sarebbe come se degli archeologi, trovando un oggetto rotondo vagamente somigliante a una ruota in qualche campagna di scavi in un sito del paleolitico, affermassero trionfanti: “Scoperta una fabbrica di automobili di due milioni di anni fa.”

 

Chissà se a benzina o a idrogeno.

Piombo e tori

Carla Rubio con l’amica Nathalia Tavares ai piedi della gradinata d’accesso al Paul Getty Museum di Los Angeles. Un indimenticabile luogo dello spirito.

La statua di nudo femminile reclinato che si vede sulla sinistra è intitolata L’Air, dell’artista francese Aristide Maillol (1861-1944).

Due curiosità: Maillol realizzò il disegno nel 1938, ma la scultura venne fusa solo nel 1962, vale a dire 24 anni dopo la sua morte.

Secondo: il materiale usato per la fusione è il piombo, un metallo molto inusuale per le statue. Un cartello ai piedi del basamento avverte, con pignoleria tipicamente anglosassone, che è proibito toccare l’opera, perché il piombo è un metallo tossico.

 

(Pensierino: è vero che i sali di piombo sono tossici, ma certamente non un fugace sfioramento con la mano di un oggetto di piombo. Ricordando i soldatini di piombo dei bambini e le tubazioni di piombo degli acquedotti romani, viene il sospetto che l’evocata tossicità serva da spauracchio per evitare “toccamenti” rituali che farebbero scomparire l’opera in pochi anni, visto l’enorme numero di visitatori del museo. Tanto per fare un esempio: il rischio è che la scultura faccia la stessa fine degli attributi del povero toro in galleria Vittorio Emanuele a Milano...)

 

Murales

Salone del Libro, Torino 2016


Un muro, un messaggio


Il testo rappresenta una domanda diretta, non negoziabile. Sì oppure no. Dal punto di vista epigrafico dobbiamo intanto notare che sia la “H” davanti alla “A”, sia la croce sul “SÌ” sembrano scritti con uno spray di tonalità leggermente diversa dal resto dell’iscrizione. 
Forse qualche anima dispettosa ha modificato l’originale e ha voluto fare intendere che l’autore dell’interrogazione sia uno sgrammaticato ignorante che confonde i verbi con le preposizioni? E che la croce sul “SÌ” sia una cancellazione, e lasci come unica irrevocabile risposta il “NO”?
Forse. Sull’autore dell’interpolazione, se d’interpolazione si tratta, si possono fare diverse ipotesi: potrebbe essere un altro pretendente della Fede? O la Fede stessa, che “a domanda risponde”? 
Se invece il testo è un originale nella sua interezza, si aprono altre ipotesi. L’estensore è in effetti uno che non padroneggia bene la grammatica, ma sulla Fede ha idee chiare: lui è pronto a cominciare una storia e sostituendosi alla destinataria della domanda, si risponde da solo, come un candidato alle elezioni politiche che dà il voto a se stesso: sì, io Fede, sono pronta a iniziare una storia con te. C’è forse sottotraccia una minaccia velata, come a dire: se rispondi no…(Stalking potenziale?)
Sulla Fede, sul suo ansioso amante, sui personaggi che potrebbero avere alterato l’iscrizione, su quali percorsi il destino abbia intessuto la sua trama per arrivare a questo punto di crisi, nel senso classico del termine, κρίσις, decisione, punto di svolta, bivio, ecco tutto questo dobbiamo immaginarlo da soli, magari mettendo il tutto nero su bianco. Del resto siamo al Salone del Libro, no?

Sull'editoria "a pagamento"

Il nocciolo dell’intera riflessione mi sembra incentrato sull’eterna questione, tormento di ogni Autore: è vero che pubblico ergo sum? La risposta positiva a questa domanda è ovviamente, in logica, l’affermazione che l’Autore che non pubblica, non è. Anzi, è una non persona. 

Non sono d’accordo. Il fatto è che nell’immaginario collettivo le cose si svolgono come in una specie di Valle Felice delle fiabe, dove alcuni valligiani, presa carta e penna, scrivono, poesie, racconti, romanzi commedie o tragedie, poi mettono tutto in una busta e mandano il loro elaborato ad un Mago (l’Agente Letterario) o direttamente al Gigante Buono (l’Editore). Segue l’immancabile lieto fine, col volume pubblicato e il popolo festante che fa code in libreria per acquistare. Ma questa è, per l’appunto, una fiaba. 

Nella vita vera, il Mago spesso chiede soldi solo per leggere il manoscritto (e questa, a mio parere, non è bello), a meno che l’Autore non sia già famoso di suo, nel qual caso il Mago fa carte false per accaparrarsi la rappresentanza.

Il Gigante Buono di solito sogna solo di pubblicare la traduzione in valligianese del romanzo che ha già venduto dieci milioni di copie negli Stati Uniti. (Un’eccezione a questa regola si ha quando l’Autore è cugino, amico, o compagno di merende del Gigante Buono o di qualche suo stretto sodale). 

Dunque, come si tormentava Lenin, Что делать? che fare? 

La mia risposta è: fate quello che vi pare e vi sentite di fare.

Chi tuona contro l’editoria cosiddetta a pagamento lasciatelo latrare alla luna o ragliare al cielo. Quello che conta, come ogni altra cosa nella vita, è il vecchio adagio patti chiari, amicizia lunga. Se credete nella vostra opera, cari Autori, e se dopo avere esperito le vie tradizionali, nessun Gigante Buono vi pubblica, rivolgetevi pure ad un Editore che vi chiede un contributo per darvi cinquecento o mille copie del vostro libro. L’importante è che vi venga chiesta una cifra ragionevole (se non è ragionevole potete sempre andare da un altro) e che non vi siano fatte promesse truffaldine per quanto riguarda distribuzione, promozione e vendite, che non saranno mai mantenute.
Voi spendete soldi vostri e siete liberi di fare ciò che vi aggrada. Avrete la possibilità di distribuire la vostra opera a persone che, sperabilmente, vi potranno dare un giudizio su quanto avrete scritto. E, qualunque sia questo giudizio, non potrà che esservi utile.

 

Un amico ha scritto: “Sorrisi, pensando a quegli scrittori che non sono mai riusciti in vita a pubblicare i loro capolavori, ad esempio Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, Suite francese di Irène Némirovski e Dissipatio Humani Generis di Guido Morselli, naturalmente.”

Bene, ha ragione il mio amico, continuiamo a sorridere, ricordando che Il Gattopardo fu dapprima esaminato sia da Mondadori che da Einaudi e rifiutato, dopo l’esame che ne fece Elio Vittorini). Continuiamo a sorridere, dicevo, con questo mio piccolo florilegio di cronache del passato che mi sembrano pertinenti e interessanti: 

Alberto Moravia, Gli Indifferenti

Nel 1929, dopo non poche difficoltà, riuscì a pubblicare a sue spese (5.000 lire dell'epoca) presso l'editore milanese Alpes il suo primo romanzo, Gli indifferenti, che ottenne subito da parte della critica buoni consensi e venne considerato uno degli esperimenti più interessanti di narrativa italiana di quel tempo. 

Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, prima parte: Du côté de chez Swann (Dalla parte di Swann)

Il primo volume, Du côté de chez Swann (Dalla parte di Swann) fu respinto dall'editore Gallimard su consiglio di André Gide, e venne edito a spese dell'autore da Grasset (1913).

Anche quando ebbe una grande notorietà, Marcel Proust ricorse all'istituto dell'Édition à compte d'auteur (cioè a pagamento) per non dover sopportare ingerenze da parte dell'editore. 

Umberto Poli (Umberto Saba), Poesie

Nel 1911 pubblicò, a proprie spese e con lo pseudonimo di Saba, il suo primo libro, Poesie, con la prefazione di Silvio Benco 

Italo Svevo, Una Vita e Senilità 

 

Pubblicò a sue spese i primi due romanzi, Una vita (1886) e Senilità (1899). Opere sostanzialmente ignorate dalla critica e dal pubblico del tempo.

Chillout music

Mi domando sei i molti dilettanti allo sbaraglio che aprono lounge bar a Milano (anche di molto prestigiosi) abbiano mai sentito parlare di “chillout music”, cioè della musica che si suona nei lounge delle Baleari, di Madrid, di Parigi, di New York, di Los Angeles.

Una musica piacevole, di sottofondo, tranquilla, di ottima qualità, che tiene conto che i frequentatori di questi locali, coppie o gruppi di amici, ci vanno nella seconda metà del pomeriggio per conversare, per bere e per rilassarsi. A Milano, per qualche misteriosa ragione, tra le sei e le sette la musica parte a palla, come in una discoteca. Ma nessuno balla: semplicemente se ne stanno tutti zitti, dato che ogni scambio di informazioni verbali è impossibile, e tra un sorso e l’altro si trastullano con il loro smartphone, immersi negli affari propri. I più socializzanti arrivano a mostrare lo schermo del cellulare al vicino di posto.

Ora i casi sono due: o chi va ai lounge bar a Milano non ha assolutamente niente da dirsi, o i gestori di questi locali non hanno capito niente. Oppure, terzo caso, sono io che vivo in un universo parallelo e in questo caso sono io quello che non ha capito.

 

Pensando al tango argentino

Osservate un video di tango argentino classico (classico, non quello moderno che francamente mi lascia alquanto indifferente).

Lui apparentemente guida la danza, ma in realtà è guidato, incantato, sedotto, dominato da un oggetto psichico che si chiama femminilità e del quale sembrano essersi indebolite le tracce nel mondo di oggi, non so se per colpa degli uomini o delle donne o di qualche forza oscura, inscritta nella società moderna.

Lei domina la situazione al punto di potersi permettere ogni tanto di perdere il controllo: in quei momenti è selvaggia, passionale, serpentiforme e ammaliatrice, ma poi si riprende e ricomincia la schermaglia d’amore; lui perde il senno e si dispera. Ma ecco: lei si riavvicina, dolcissima, e il percorso d’amore si riannoda.

Il tango, potente metafora del più problematico dei rapporti umani.

 

Pensando al tango argentino...

La provocazione e il sorriso. Il mostrarsi e il nascondersi. Lo scarto di umore e il fuoco della passione, che si spegne e poi ritorna. L’invito e la ripulsa. L’astuzia e l’innocenza. Sdegno e ironia, rimprovero e consolazione, timore e incoscienza, sberleffo e dolcezza. Resistere e abbandonarsi. E tutto questo si mescola in un’incessante voglia struggente di ritrovarsi e in un malinconico inconscio desiderio di perdersi. Questo è il tango e questo è il suo messaggio: se la vita di coppia fosse vissuta come un tango, la coppia sarebbe eterna, forte come la roccia anche se apparentemente labile come l’acqua.

 

Tango en la Boca...

A volte rivedo il video qui sotto e ogni volta ho l’impressione di non avere ancora detto tutto quanto avrei voluto dire. La coppia che balla il tango sembra immersa in un’aura in grado di creare un senso di separatezza da tutto ciò che vi è di esterno. La donna e l’uomo sono confinati nell’hortus conclusus della loro passione che, felice o infelice che sia, riguarda solo i protagonisti e non comunica con l’esterno. Fuori gli “altri” schiamazzano, qualcuno fa commenti volgari, altri ridacchiano stupidamente. I camerieri del vicino ristorante corrono avanti e indietro, passanti frettolosi compaiono e svaniscono. Ma i nostri amanti non vedono e non sentono: solo la musica scandisce all’unisono i loro passi e i battiti dei loro cuori. L’estasi e il tormento non si possono condividere.

 

Ancora tango...

Opera lirica

La soprano Anna Netrebko, nata nel 1971 a Krasnodar in Russia,  vanta nel mondo schiere di ammiratori, ma anche un certo nugolo di detrattori. Poiché ha una bella voce, è una bella donna, ha talento,  grande presenza scenica, sensibilità interpretativa e pronuncia impeccabilmente l'italiano che in campo operistico è gran cosa, i suddetti detrattori hanno qualche difficoltà a detrarre: chi dice che ha un repertorio troppo vasto, chi la consiglia di “studiare di più”, chi le consiglia di non rovinarsi la voce interpretando troppi ruoli, chi nota che nell’interpretazione della Norma di Bellini nel pronunciare “bel sembiante” ella stona. Perbacco, dico io, questo si chiama un orecchio bionico, degno di Superman, che in un’opera di migliaia di parole e migliaia di note becca la stonatura in due parole.

Insomma un mucchio di fesserie.

Temo che in certe punte d’acredine ci sia semplicemente una meschinamente umana invidia per una donna di grande valore.

 

Io non sono un esperto di opera lirica, né tantomeno un musicologo. Solo un modesto appassionato, ho visto un po’ di opere in tanti teatri in giro per il mondo. Una per tutte, uno dei miei più cari ricordi: alla Scala nel 1955 con i miei genitori, La Traviata di Verdi, regia di Luchino Visconti, con la Callas e Di Stefano, sul podio Carlo Maria Giulini.

Ebbene credo di avere capito fin d’allora una cosa: l’opera lirica è musica, naturalmente, ma è anche “teatro”. Tuttavia è un teatro anomalo, poiché chi nella vita reale si comportasse come i personaggi d’opera verrebbe probabilmente  affidato a qualche istituzione psichiatrica.

Qualche spiritoso ha scritto: “Opera, spettacolo dove un tale che si busca una coltellata nella schiena, invece di perdere sangue, canta.”

Ma questo non turba l’appassionato, che è in grado di “delocalizzare” i suoi schemi di riferimento logici, validi nel quotidiano, al mondo magico dell’opera ed è quindi in grado di accettare e metabolizzare ogni situazione operistica, per quanto strana o assurda possa sembrare.

 

Ma vorrei esprimere anche un’opinione personale: un piccolo aiuto da parte degli interpreti a questa operazione di accettazione mi sembra desiderabile. Voglio dire: un tenore che dà fuori di matto per l’eroina di turno, la quale più che una desiderabile amante sembra una mongolfiera piena d’idrogeno pronta ad esplodere come l’Hindenburg nei cieli di New York, ecco questo richiede, almeno a me, uno sforzo extra.

 

Con Anna Netrebko (o con la Callas, tanto per fare un altro nome) questo sforzo non viene richiesto, e si capisce benissimo perché il tenore sia pronto ad uccidere, a farsi uccidere, a prendere la via dell’esilio, a farsi maledire, a dare la testa nel muro e a morir d’amore per la passione che gli ispira la soprano.

 

Con tutto il rispetto per le mongolfiere.

Il tu e il lei

Lei è una bella ragazza, intorno ai 25/30 anni, mi sembra abbastanza colta ed è sicuramente simpatica. Dice di avere letto tre miei romanzi. Me ne compiaccio vivamente. Mi dà rigorosamente del “lei”. Me ne compiaccio un po’ meno.
Io le do del tu e, al secondo incontro, le dico: puoi darmi del tu, naturalmente!
Mi risponde: non so se ci riesco. 
Ora, la risposta potrebbe essere interpretata come un lusinghiero segno di rispetto per l’illustre scrittore ma, amici coetanei… diciamoci la verità, non è un buon segno.

Grande ed inesauribile Rilke

“Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente.”


Rainer Maria Rilke

Archeopaleografia cosmica

Oggi una campagna di scavi condotta sul pianeta Terra dell’Antico Sistema Solare, nell’area dove molti archeologhi ritengono che fosse stanziata una comunità umanoide, sono stati rinvenuti oggetti che testimoniano come la suddetta comunità, ancorché allo stato primordiale, possedesse già un certo grado di conoscenze tecnologiche.

In particolare, hanno destato molto interesse degli oggetti di forma circolare, in materiale plastico, che sono stato subito teletrasferiti ai Laboratori Centrali della quarta circoscrizione planetaria, specializzati nel recupero dei residuati paleoplastici. Con sorpresa degli scienziati, i dischi si sono rivelati di due tipi: il tipo A, portatore di messaggi vocali e il tipo B, portatore di messaggi visivi. Questi ultimi sono molto danneggiati e si sta lavorando per ricavarne le informazioni non del tutto degradate, mente tra quelli del tipo A, alcuni sono ben conservati e ci sono già risultati interessanti. Infatti fortunatamente la codifica logica delle vocalizzazioni è molto semplice e gli scienziati sono stati in grado di decrittare i suoni, ricavandone la seguente trascrizione, espressa in SI.FO.LI.P. (Sistema fonetico delle lingue primitive):

 

“dobbiamo avere paura del buffone, che non è hitler ma è peggio di hitler, come lui stesso ha ammesso. lui è come pol pot, stalin e robespierre.”

 

“il comune senso del pudore è ormai scomparso ai vertici delle istituzioni, è il pensiero di beppe grillo riportato nell'ultimo post del suo blog.”

 

“grillo: "berlusconi non va in galera perché il pd lo protegge.”

 

“licio gelli contro il "bambinone" matteo renzi e le sue "goffe" riforme. "vedo con soddisfazione il popolo soffrire. Il fenomeno renzi, dice ancora gelli, è “parzialmente italiano”, visto che “mi risulta che fra i suoi mentori ci siano persone che vivono a washington. È circondato però da mezze tacche: gli ex lacchè di berlusconi”. Il venerabile fa i nomi di gianfranco fini, angelino alfano, renato schifani, “personaggi non certo di livello”. Stesso errore di silvio berlusconi che “ha sbagliato con le giovani donne, ma soprattutto circondandosi di personaggi di bassa levatura”, come denis verdini, “un mediocre uomo di finanza”.

 

“Il leader m5s parla a milano, a piazza del duomo: «enrico sta con noi». il premier a roma ribatte: «sciacquati la bocca».

 

“vendola: “grillo riempie le piazze? Anche mussolini e hitler lo facevano”

 

“berlusconi: «deluso da renzi» «prendo l'impegno solenne di garantire a tutti i pensionati una pensione di mille euro al mese, da fare ai primi consigli dei ministri». è una delle battute pronunciate da silvio berlusconi all'eur aggiungendo ancora che la stessa misura sarà varata a «favore delle casalinghe». berlusconi si è detto deluso da renzi («con lui più spese e più tasse») e ha ribadito che grillo gioca sulla «disperazione delle gente.»”

 

“silvio berlusconi, dopo aver assistito alla performance di grillo ha detto senza mezzi termini cosa pensa del leader cinque stelle: "è uno esperto sul non entrare in prigione, perché con colpa ha ucciso tre amici", insomma è un assassino. Ma non basta: "è conosciuto in tutto il mondo dello spettacolo come uno che non faceva spettacolo se quanto a lui dovuto non era pagato in gran parte in nero", insomma è un evasore. E la risposta di grillo non si è fatta attendere: berlusconi è "un pover'uomo".

 

Il senso di queste proposizioni rimane per il momento molto oscuro. Gli storici del Periodo di Mezzo dell’Antico Sistema Solare, ritengono siano state espresse in uno dei numerosissimi linguaggi con i quali le tribù dell’emisfero nord cercavano di confondersi reciprocamente le idee. Il professor bingo@best ritiene che si tratti di formule magico-esorcistiche tendenti ad annichilire i capi-clan avversari. La professoressa lula@chip si è concentrata invece sull’individuazione dei semantemi principali che sembrano essere citati più spesso nel documento: appare abbastanza chiaro che buffone, comico, pagliaccio, bambinone, assassino, evasore, hitler, mussolini, pol pot, stalin e robespierre siano figure retoriche a carattere denigratorio e scaramantico.

Molto interessante, secondo lo specialista qui@proquo il tri-significante “sciacquati la bocca” che alluderebbe in forma dispregiativa ai riti di alimentazione precedenti la Trasmigrazione.

C’è invece sconcerto tra gli esperti per l’interpretazione da dare alla frase “berlusconi è un pover’uomo” perché da altri documenti ricavati dai dischetti sembrerebbe invece che il medesimo personaggio sia stato ricchissimo e i grammatici si stanno accapigliando sulla questione.

 

Gli storici che@neso e mava@la si sono concentrati invece sulle figure che sembrerebbero rappresentare personaggi veramente esistiti, anche se probabilmente non in carne ed ossa, per così dire, ma piuttosto come figure mitologiche provenienti da un oscuro passato: berlusconi, grillo, renzi rappresenterebbero dunque i commedianti di ludi tribali, che si svolgevano, di tanto in tanto, sulle pubbliche piazze. Altri personaggi minori incarnerebbero invece la figura del citrullo, tipico, per quanto ne sappiamo, delle antichissime commedie dell’arte. Interessante inoltre la posizione della professoressa non@ladiedi che sostiene come certe velate allusioni a figure allegoriche come l’esa-significante “ha sbagliato con le giovani donne” denoti da parte di uno della triade principale un vivo interesse, quasi ossessivo, verso il genere femminile.

Ricorre spessissimo il semantema “galera” che, secondo gli specialisti, indicava un particolare rito di espiazione a cui erano sottoposti, dopo un certo periodo di attività, quasi tutti i personaggi pubblici della tribù. Non si sono ancora individuate le premesse culturali di questa incomprensibile pratica sociale.

 

Ci giunge ora la notizia che è stata completata l’ultima trascrizione:

“per fortuna mancano pochi giorni al voto, tra poche ore tutto questo orrendo delirio di violenza sarà finito. ma intanto la dose di insulti che possiamo ancora metabolizzare comincia ad essere molto scarsa: siamo tutti a rischio intossicazione, sia chi fa il nostro mestiere sia gli italiani bombardati dalle urla della campagna elettorale.

meno male che è quasi finita!” 

 

 

Non si ha alcuna idea, per il momento, di cosa significhi. Una prima ipotesi è che si tratti di un’invocazione agli dei, che il pubblico pronunciava alla fine della commedia.

Il mistero della glocostologia

Immaginatevi un problema culturale ( scientifico, linguistico, artistico, cosmologico, antropologico…), allo stato dei fatti irrisolto. Supponiamo che il problema riguardi un ipotetico ramo del sapere che chiameremo la “glocostologia”
I giornalisti ne parleranno come de “Il mistero glocostologico”.
Su questo mistero e sull’impellente necessità di risolverlo vengono istituite varie cattedre universitarie, con relativi cattedratici, assistenti, ricercatori e lotte a coltello per avanzare verso il vertice della baronia. Dopo cinquant’anni “Il mistero glocostologico” è sempre più misterioso, ma nel frattempo ci hanno campato generazioni di “studiosi”.
Può succedere che un outsider intelligente e ingegnoso, un autodidatta appassionato , un vero talento naturale, proponga una soluzione convincente e acuta del “Mistero”. 
Anatema! Il mondo accademico, che ruota e campa intorno all’insolubilità perenne del “Mistero”, si ribella. Ma come? Teniamo famiglia e questo scriteriato viene a risolvere il nostro “Mistero” e a toglierci il pane di bocca?
Per stroncare inappellabilmente l’intruso, il sabotatore e l’incompetente, il più autorevole dei cattedratici, che del “Mistero” non ha mai capito assolutamente niente, scriverà un ponderoso saggio ( in francese, perché fa fino), intitolato: “La glocostologie: problèmes et perspectives “ che sancirà una verità assoluta: il “Mistero” non può (e non deve) essere risolto.

 

 

Il delitto di Cogne

Oggi 3 Febbraio 2015 Annamaria Franzoni, protagonista del caso giudiziario passato alla storia come il “Delitto di Cogne” ha lasciato il carcere con dieci anni di anticipo rispetto alla pena che le era stata comminata dal Tribunale, sulla base di una perizia psichiatrica che escluderebbe la reiterazione del crimine. Naturalmente c’è chi grida allo scandalo, chi approva la decisione del Giudice di Sorveglianza, chi semplicemente non conosce o non ricorda ciò che avvenne. Riporto qui di seguito una nota tratta dal mio diario personale.

 

 

8 Febbraio 2003

 

Nel mese di Gennaio 2002 un bimbo di tre anni, Samuele Lorenzi, fu trovato ferito a morte nel suo lettino, nella cittadina di Cogne, Val d’Aosta, Italia. Il piccolo era immerso nel suo stesso sangue, massacrato da un’arma del delitto che non fu mai ritrovata, probabilmente un oggetto domestico pesante. Tutti gli indizi e le perizie medico legali e quelle tecniche della polizia scientifica, e i riscontri obiettivi dei tempi in cui l’assassinio poteva essere stato eseguito, portarono all’incriminazione della madre, Annamaria Franzoni.

La donna, madre anche di un altro bimbo in età scolare, quella mattina si alzò per tempo per accompagnare il figlio maggiore a scuola; si assentò per il breve tempo necessario a questo impegno, e tornando dichiarò di avere trovato il figlio minore morto o agonizzante, non ricordo di preciso.

La Procura della Repubblica decise per l’incriminazione della madre come unica sospettata del delitto.

Chi ha seguito questa vicenda sa che, come sempre accade in questi casi, si verificarono gli avvenimenti consueti: formazione nell’opinione pubblica del partito degli innocentisti e dei colpevolisti; scesa in campo dell’Avvocato di Grido a difesa dell’accusato apparentemente indifendibile; mitomani vari che intorbidano le acque.

Personalmente, avendo seguito le cronache giornalistiche riguardanti il caso, penso che Annamaria Franzoni sia colpevole, però capisco le ragioni degli innocentisti: non si può accettare facilmente che una madre faccia una cosa del genere. Se da una parte ci sono riscontri precisi di polizia, dall’altra ci sono le ragioni del cuore e anche della mente, che si rifiuta di aderire all’abominio. Non c’è traccia di altre persone che possano avere compiuto il delitto, o che abbiano neppure lontanamente avere avuto una ragione per compierlo; dall’altra parte è dolorosissimo accettare che sia stata la mamma, la quale annunciò subito il desiderio di, come dire, sostituire il figlio morto con un figlio nuovo, proposito che in effetti onorò con una nuova gravidanza.

Bene,  allora chi ha ucciso Samuele? Personalmente non ho dubbi: un sicario che si identifica con il mandante. La madre che in un accesso d’ira sconvolgente, probabilmente innescato da un comportamento irritante del bimbo, lo uccide diventando in quel momento la vendicatrice di un sopruso intollerabile: uno stress psico-fisico insopportabile, una stanchezza mortale per il combattere quotidiano contro le mille incombenze della vita familiare, un cedimento alla grave depressione di cui certamente Annamaria soffriva.

Non ho titoli accademici per sostenere scientificamente la mia convinzione. Posso solo dire da cosa deriva in fondo la mia posizione colpevolista: sfido chiunque a trovare tra le migliaia di fotografie di Annamaria pubblicate sulla stampa, o le migliaia di filmati televisivi che la ritraggono, un solo fotogramma dove la donna guardi negli occhi gli interlocutori, cioè i lettori o gli spettatori.

Io penso che una donna accusata ingiustamente di avere massacrato il figlio di tre anni, guarderebbe dritta davanti a sé, di fronte a qualunque interlocutore, di fronte a qualunque macchina fotografica o videocamera che sia, gli occhi fiammeggianti di sdegno sacro, fulminando furiosamente chiunque osi pronunciare il nome dello scandalo inaudito.

Annamaria guarda sempre, dico sempre, dolcemente da un’altra parte, verso un luogo distante, un tranquillizzante porto delle nebbie: quello è il luogo dell’altrove, il luogo sereno dove non è successo nulla, dove i bimbi morti vengono resuscitati per clonazione del tutto lecita e naturale, per mezzo di un nuovo parto, dove il sicario generato nelle latebre della mente può essere dimenticato ed infine annichilito.

Io, colpevolista, dichiaro Annamaria Franzoni innocente.


 

Una pochade medievale

Ho sempre pensato che il tema dell’uomo superdotato sessualmente facesse parte delle barzellette da caserma, o di testi scritti e cinematografici appartenenti all’area pornografica oppure, nell’antichità classica, nelle commedie scurrili ambientate nel lupanare. Talvolta si accenna al tema anche in romanzi moderni, sia pure in forma allusiva o indiretta.

Con mia sorpresa ho invece trovato testimonianza di questo mito fallico in un testo redatto addirittura da un vescovo, Liutprando di Cremona, che visse dal 920 a 972 d.C.

Per afferrare il contesto della sua narrazione, occorre che riporti qui un breve estratto della biografia dell’autore, redatta da Erich Auerbach (1892-1957), il grande filologo medievalista tedesco.

“[Liutprando] proveniva da un’illustre famiglia longobarda, in età giovanissima trovò favore alla corte di re Ugo di Pavia, per la sua buona disposizione al canto; nel 949 andò come legato a Costantinopoli per incarico di Berengario II, poi cadde in disgrazia presso Berengario e a partire da 956 fu al servizio di Ottone I; negli anni 960, per conto di quest’ultimo, svolse attività diplomatica e pubblicistica nella politica italiana; nel 968 fu nuovamente inviato a Costantinopoli da Ottone… eccetera eccetera.”

Insomma fu un cortigiano e letterato, molto colto, viaggiò molto e la sua appartenenza al clero non fece certamente di lui un pio uomo di chiesa.

Evidentemente il fatto di essere stato cacciato dalla corte di Berengario gli dovette andare alquanto di traverso e trovò modo di vendicarsi, da scrittore dalla penna affilata qual era, riportando nella sua opera (Antapodosis, V, 32) questo vivace “reportage” di una scabrosa vicenda accaduta alla corte di Berengario avente per protagonista Willa, la moglie di quest’ultimo. Vediamo:

Habuit ea presbiterulum capellanum, nomine Dominicum, statura brevem, colore fuligineum, rusticum, stigerum, indocilem, agrestem, barbarum, durum, villosum, cauditum, petulcum, insanum, rebellem, iniquum; cuius magisterio duas Willa commendaverat gnatas, Gislam scilicet atque Girbergam, ut eas litterarum scientia epotaret.” Il che tradotto significa: “Ella aveva per cappellano un pretino di nome Dominicus, piccolo, nerastro, rozzo, irsuto, riottoso, villano, grossolano, rude, peloso, membruto, testardo, furioso, ribelle e sfrenato. Willa gli aveva dato da educare le due figlie, Gisla e Girberga, perché le nutrisse della conoscenza delle lettere.”

L’autore continua la narrazione, facendoci sapere che il disgustoso personaggio entrò nelle grazie della regina che lo copriva di doni, tra la meraviglia di tutti, essendo ben nota la di lei proverbiale avarizia. Successe dunque che una notte, in assenza di Berengario, un cane sbucato da chissà dove, cominciasse a latrare spaventosamente, tanto da svegliare tutti, e si lanciasse sul prete, mordendolo furiosamente mentre costui si stava dirigendo versa la camera di Willa. Per salvare la propria reputazione, Willa lo accusò di avere tentato di penetrare nel gineceo per insidiarne le donne e il prete, con l'intento di evitare guai peggiori, avallò la spiegazione. Berengario, ritornato a casa, accettò questa versione dei fatti, il disgraziato prete fu fatto evirare e cacciato di casa. Come stessero poi veramente le cose i cortigiani lo sospettarono ben presto. Infatti:

Dixerunt autem qui eum eunuchizaveruntquod merito illum domina amaret, quem priapeia portare arma constaret.” Vale a dire: “ Ma coloro che lo castrarono dissero che la padrona aveva avuto le sue buone ragioni per amarlo, viste le straordinarie armi amatorie che si portava appresso.”

Priapeia arma… che lingua magnifica il latino!

 

[E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblica nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli, 2007]

 

Una barella a portata di mano

Malgrado tutte le meraviglie alle quali ci hanno ormai abituati  i computer, le traduzioni automatiche restano fonte inesauribile di divertenti scempiaggini. Una prova in più che il linguaggio rimane ancora una funzione cognitiva superiore, che solo la mente umana riesce a dominare completamente.

Ecco un esempio: un’azienda tedesca promuove riproduzioni fotografiche di grandi dimensioni, sul tema (manco a dirlo) “ragazze sexy”. Qui di seguito il testo promozionale:

“Natale Ragazza sexy con la biancheria intima rossa, pittura su tela, grandi immagini XXL completamente incorniciato con barella, stampe d'arte su murale con telaio, più economico di pittura o un dipinto a olio, non un manifesto o un cartel.

100% Made in Germany , l'immagine viene consegnato direttamente da appendere se volete un altro barella dimensione fatta di legno di pino originale resistente ai raggi UV pigmento dell'inchiostro: basta copiare il titolo dell'immagine e la casella di ricerca di Amazon inserimento.”

 

I potenziali clienti italiani, non desiderando assolutamente appendere barelle alle proprie pareti, fatti gli scongiuri di rito, passano ad altro.

 

I dinosauri

A proposito dei recenti orrori di cronaca.

Giugno 2014

Nel corso dell’evoluzione ci furono i pesci, poi uscirono dagli oceani i rettili. Raggiunsero grandi masse corporee, unite a piccoli cervelli. Non ci poteva essere pensiero, né coscienza. Il cervello sauriano sapeva solo reagire agli impulsi primordiali: fame, sete, pericolo, sopraffazione, perpetuazione della specie. Poi, nel corso di lunghissime ere, fece la sua comparsa l’uomo, la cui ultima forma evolutiva è stata definita (da egli stesso e se non, da chi altro?) Homo sapiens sapiens. Una definizione alquanto autocelebrativa, ma vabbé, passiamoci sopra. 
Il punto è: nelle successive fasi evolutive che fine ha fatto il cervello sauriano? È rimasto in dotazione esclusiva ai dinosauri? No, ce lo siamo portato appresso. Lo abbiamo solo ricoperto di un bello strato di corteccia cerebrale, sede delle funzioni cognitive superiori, della coscienza e dell’autocontrollo. Ma ogni tanto (tutto sommato raramente, per fortuna) la frazione pre-evolutiva del nostro cervello spunta fuori ed emerge dalla superficie della corteccia, prendendo le redini della nostra vita, per un tempo più o meno lungo. Durante quel tempo le nostre azioni non sono più le nostre, ma appartengono al Tyrannosaurus rex.
Controprova: spesso, quando la corteccia riprende il sopravvento, il “mostro” si pente, piange, si dispera. A volte si suicida. Se queste cose non succedono, significa che il danno alla corteccia cerebrale è diventato permanente.
C’è un rimedio? Temo di no. Quella che ho descritto, piaccia oppure no, fa parte, temo, de “La condition humaine”.

 

Un brano da Kyra Kyralina, di Panait Istrati

Un giorno l’arcivescovo di Bucarest doveva recarsi in una città in cui la sua presenza era necessaria per una cerimonia ufficiale. Si fece venire la diligenza migliore e Sua eminenza vi salì.

Ma il sürücü della vettura ne fu molto scontento, malgrado l’allettante mancia che l’attendeva, perché, come tutti sappiamo un sürücü non può condurre i cavalli senza bestemmiare. Per lui far girar la frusta in aria è cosa più forte della mancia stessa e il sürücü dell’arcivescovo non smentiva il suo nome. Temendo i fulmini del grande prelato, il pover’uomo si morse le labbra, e guidò bene o male i cavalli per tre ore di cammino. Giunto però al passaggio di un guado, si fermò di colpo. Soffocato e rosso di collera come un gambero cotto, lasciò andare le redini dei suoi quattro cavalli e attese, deciso a reclamare il suo diritto ad ogni costo.

L’arcivescovo si impazientì e, dopo qualche tempo, mise fuori il capo dalla portiera, chiedendo il motivo della fermata. Il sürücü si tolse il berretto e spiegò umilmente:

“Vedete, Altissima santità, i cavalli sono abituati alle bestemmie del sürücü e siccome io non posso bestemmiare alla vostra presenza, non mi riconoscono più e si rifiutano di affrontare il guado.”

L’arcivescovo propose:“Figlio mio, provatevi a gridare: hi, hi, bravi cavalli!”

Il cocchiere, maligno, ripeté a fior di labbra hi, hi, bravi cavalli! Ma le bestie non si mossero di un palmo.

“Non c’è altro mezzo all’infuori dalle bestemmie, per farli ripartire?” chiese Sua Eminenza perdendo la pazienza.

“No, Eminenza, ve l’assicuro io! I cavalli non vanno che con l’avena e le bestemmie.”

“Ebbene,” rispose il Metropolita, “bestemmiate pure e io vi assolvo dal peccato.”

Il cocchiere balzò sul suo sedile, afferrò le briglie, fece schioccare la sua interminabile frusta e gridò con una voce da far spaventare i morti:

“Hi, hi, hiiii! Per tutte le sacre pantofole della Vergine! Per tutte le immagini sante! I quattordici Vangeli e i sessanta Sacramenti! I dodici Apostoli e i quaranta Martiri della Chiesa! Hi, hi, hiiii! Da bravi, cavalli, Dio, Cristo e Spirito Santo!”

La diligenza volò sul guado come una rondine. Sull’altra riva, l’arcivescovo mise di nuovo fuori la testa e disse al conducente che lo guardava con aria trionfante:

“È straordinario come sono abituati i vostri cavalli, ma voi mancate di istruzione religiosa. I Vangeli non sono quattordici, ma quattro, e i Sacramenti non sono sessanta, ma solo sette.” 

“Avete ragione, Eminenza, e lo sapevo anch’io. Ma vedete, quattro e sette, sono cifre troppo brevi per poter bestemmiare come si deve, e allora noi altri cocchieri facciamo del nostro meglio per aggiustare la religione ed adattarla alle nostre necessità professionali.”

 

 

Causes célèbres - L'omicidio Meredith Kercher

Pensierino pensato in proprio. Il processo per l’omicidio Meredith Kercher è diventato (ovviamente) un processo da stadio, con la curva A (colpevolisti) che fronteggia bellicosamente la curva B (innocentisti). Personalmente mi colloco negli spalti dei dubbiosi, e voglio dire il perché. Quattro interventi della magistratura hanno prodotto i seguenti risultati: Assise (condanna), Appello (assoluzione), Cassazione (rinvio in Appello), Appello (condanna).

Questa serie di risultati, notevolmente incoerente, è stata generata da processi in cui magistrati competenti (si spera) e giurie popolari, pur avendo a disposizione ogni risultato investigativo, perizie, indagini medico-legali e ogni segreta carta, a distanza di oltre sei anni dai fatti, non sono riusciti ad emettere un verdetto unanime e incontrovertibile. Infatti è ancora aperta la strada di un ricorso in Cassazione da parte della difesa. Ecco perché io, sapendo ben poco dei dettagli e nulla di giurisprudenza, mi astengo dal frequentare le curve A e B.

 

Aggiungo solo una sommessa riflessione: se non erro (mi sono appena dichiarato digiuno di diritto) mi sembra che condanne a 25 e a 28 anni siano pene pesantissime, che distano assai poco dalla pena massima, l’ergastolo. Ora per quel poco che conosco del sistema giudiziario italiano, pene di questo genere si comminano di norma ai colpevoli di delitti nei quali è evidente o la premeditazione, o la fredda determinazione di uccidere, magari con l’aggravante dei “futili motivi”. Ora io non credo che un gruppo di “assassini” (Rudy Guede, Raffaele Sollecito, Amanda Knox) si siano associati premeditando una cospirazione per uccidere in casa sua la povera Meredith Kercher. Tendo a pensare piuttosto ad un gioco erotico di gruppo, finito male, forse per l’uso concomitante di alcol o di droghe, non so.

 

Questo non significa che l’assassino materiale (cioè colui che ha sferrato il fendente mortale alla gola di Meredith) e gli eventuali complici, non vadano individuati e puniti ex-lege. E infatti Rudy Guede è in carcere, condannato in via definitiva con rito abbreviato, come autore materiale del delitto, mentre Knox e Sollecito sono accusati di essere “co-autori” del delitto medesimo. Se le cose stanno così, mi confermo nel mio convincimento che le pene decise a Firenze ieri siano assolutamente sproporzionate alle responsabilità oggettive, ammesso e non concesso che Knox e Sollecito siano effettivamente i “co-autori” dell’omicidio.

 

La romantica Tavola degli Elementi di Mendeleev

Qualcuno ricorderà, dai tempi delle scuole superiori, una faccenda ostica ai più come la tavola periodica degli elementi, che nella sua formulazione originale viene comunemente chiamata Tavola di Mendeleev. Mi diletterò quindi ad introdurre, per quanto improbabile possa apparire l’impresa, un elemento romantico nella famigerata Tavola.

Nel 1903 Aleksandr Aleksandrovič Blok, aveva 23 anni. Sarebbe diventato uno dei più famosi poeti del tardo romanticismo e del simbolismo russo; in quell’anno sposò Ljubov’ Dimitrevna, la figlia di Dmitrij Ivanovič Mendeleev, il famoso chimico. Ljubov’ era di una bellezza sconvolgente e il giovane marito le dedicò versi magnifici, nella sua raccolta poetica “Stichi o prekrasnoj Dame” (Versi sulla bellissima Dama).

Quando si trasferirono a Mosca, la bellezza di Ljubov’ Dimitrevna accese la passione di Boris Nikolaevič Bugaev, figlio del celebre (e bruttissimo) professore Bugaev, cattedratico di matematica all’Università, sposato con una delle più belle donne di Mosca, Aleksandra Dmitrievna Bugaeva. Boris, conosciuto con lo pseudonimo di Belyj, lunghi capelli biondi e occhi azzurri, crebbe come uomo straordinariamente attraente; si dice che non c’era donna che potesse resistergli. Il triangolo Blok, Belyj, Ljubov tenne banco nella società moscovita per tutto il primo decennio del secolo e oltre. Va detto, per completezza d’informazione, che Belyj si ritrasse quando lei stava per cedergli; lei la prese molto male, e non volle più sentirne parlare; dopodiché lui scoprì di essere perdutamente innamorato e si consumò tutta la vita nel rifiuto di lei.

 

Misteri dell’animo umano, al cui confronto la Tavola dell’illustre padre di Ljubov’ Dimitrevna, è un giochetto da Settimana Enigmistica.

 

Italia, novembre 2013: il male viene sempre da lontano

Si ringraziano in particolare:

 

1) Il Partito Comunista Italiano, che nel 1967, per bocca dell’autorevole leader della CGIL Luciano Lama, proclamò che “il salario è una variabile indipendente”, volendo dire con questa scemenza che i sindacati avevano diritto di chiedere qualunque aumento salariale per i lavoratori, indipendentemente dalla produttività. In altre parole: se in una fabbrica si producevano 10, 100 o 1000 unità di prodotto al giorno, ciò non doveva avere alcun riflesso sul trattamento economico dei lavoratori di quella fabbrica. Questa concezione aberrante aprì le porte a una lunghissima e devastante stagione di aspre, incattivite e conflittuali relazioni industriali, che minarono alla base la competitività dell’industria italiana.

 

2) La Democrazia Cristiana, che con le aziende statali e le partecipazioni statali, IRI in testa, inventò un sistema per il quale, ad esempio, le ferrovie e le poste italiane avevano un numero di addetti doppio rispetto a Francia e Germania, per svolgere (male) la metà del lavoro delle controparti francesi e tedesche. Per non parlare delle aziende decotte, tenute in piedi con soldi pubblici, quindi per buona sostanza stampando carta moneta (debito pubblico), per pagare finti stipendi per l’esecuzione di finto lavoro. (Sistema che, per inciso, ha portato alla rovina economica e politica anche l’Unione Sovietica). Naturalmente la contropartita di questa allegra finanza erano voti, voti e ancora voti.

 

3) Il cosiddetto “grande capitalismo italiano” (risum teneatis amici) che ha vissuto di protezioni doganali, sovvenzioni statali, evasione fiscale, esportazione illegale di capitali, corruzione, cassa integrazione ed altre consimilari invenzioni del genio italico, per ottenere alla fine la scomparsa dal sistema manifatturiero italiano da interi settori stratetegici come la chimica, l’elettronica, la metallurgia, la farmaceutica, il tessile, gran parte della nostra industria alimentare venduta agli stranieri, gran parte dei nostri settori legati alla moda e ormai, di fatto, anche dal settore automobilistico. Ultimo esempio di politica industriale suicida: l’ILVA.

 

4) La malavita organizzata, che ha impedito l’afflusso di capitali di investimento nel sud dell’Italia, creando condizioni impossibili per l’instaurarsi di un tessuto industriale/commerciale sano, coeso, autonomo e creatore di ricchezza, invece che di sperpero di soldi pubblici.

 

5) Gli Italiani, popolo formato da persone intelligenti in proprio, e imbecilli per conto terzi, rissosi, disinformati, che dicono di no a tutto ciò che ha a che fare con la scienza e la tecnologia moderne, e che aderiscono volentieri agli arruffapopolo che gli promettono la luna. Eccovi accontentati: potrete sempre ammirare la luna, a pancia vuota. 

 

Amen.

 

Moda femminile: gli accessori

 

La moda femminile propone oggetti assolutamente strabilianti , assurdi, talvolta quasi immateriali, e questo appare ancor più vero soprattutto tra gli accessori: le scarpe, i cappelli, i gioielli, l’intimo…
Una specie vivente, la femmina di Homo sapiens, ha adottato una weltanshauung , una personalissima rielaboraziona psicologica dei canoni estetici, una concezione del modo di presentarsi in pubblico o in privato, che permette alle donne di indossare stranissimi e improbabili manufatti. E questa possibilità le fa sentire belle, desiderabili, perfette. E lo diventano davvero, e lo sono davvero: questa è la magia.

Alcune riflessioni sulla cosmogonia del Kojiki

Il Kojiki, o Registrazione delle Antiche Cose, fu prodotto in Giappone per ordine imperiale nell'ottavo secolo della nostra era. Un dignitario di corte, Yasumaro, raccolse la tradizione orale sull'origine dell'uomo, fino alla creazione del Giappone e all'istituzione divina della famiglia imperiale, dalle labbra di Hiyeda no Are, un uomo dalla memoria straordinaria, in grado di ricordare tutti i miti e le storie tramandate oralmente di generazione in

generazione.

Il Kojiki è un libro difficile, sia per la lingua, non agevole da rendere in un idioma europeo, sia per l'estrema complicazione della presentazione dei concetti cosmogonici e antropogonici.

Tuttavia costituisce una lettura affascinante e sorprendenti sono i frutti di una comparazione delle storie che vi sono raccontate con quelle di altre tradizioni con le quali il Giappone non avrebbe dovuto in teoria avere avuto  alcun contatto.

La prefazione, nella traduzione inglese di Basil Hall Chamberlain, contiene questo bellissimo passaggio:

 

So in the dimness of the great commencement, we, by relying on the original teaching, learn the time of the conception of the earth and of the birth of islands; in the remoteness of the original beginning, we, by trusting the former sages, perceive the era of the genesis of Deities and of the establishment of men.

Truly we do know that a mirror was hung up, that jewels were  spat out, and that then an Hundred Kings succeeded each other;  that a blade was bitten, and a serpent cut in pieces, so that a  Myriad Deities did flourish”.

 

[“Così nell'oscurità del grande inizio, noi, basandoci sull'insegnamento originale, impariamo il tempo del concepimento  della terra e della nascita delle isole; nel remoto cominciamento originale, noi, avendo fiducia negli antichi saggi, percepiamo l'era della genesi degli Dei e della creazione dell'uomo.

In verità noi sappiamo che uno specchio fu appeso, che gioielli furono gettati fuori, e che i Cento Re succedettero l'uno all'altro; che una lama fu morsicata, e un serpente tagliato a pezzi, così che i Mille Dei furono generati”.]

 

Immediatamente siamo calati nella dimensione misterica di fatti accaduti e però inesplicabili, drammaticamente resa dal disperato bisogno di spiegare, di fissare dei concetti, degli accadimenti, incommensurabilmente fuori dalla  portata della mente degli uomini che ne erano stati gli stupefatti testimoni.

Il Kojiki narra in forma mitica una serie di eventi che iniziano dal Caos primordiale: il Caos comincia a condensare, ma “la forza e la forma non si erano ancora manifestati, e nulla aveva un nome, nulla era fatto, chi poteva conoscere la sua  dimensione?

Tuttavia il Cielo e la Terra dapprima si separarono e i tre Dei compirono l'inizio della creazione; si svilupparono l'Essenza  Passiva ed Attiva ed i Due Spiriti divennero gli antenati di ogni cosa”.

         

(Vorrei osservare incidentalmente che è impressionante trovare negli antichi libri sapienziali questi concetti di condensazione della materia rarefatta ed indifferenziata in oggetti celesti dimensionalmente formati, una conquista

intellettuale che appartiene all'astrofisica dei nostri giorni.)

 

Il Kojiki prende quindi le mosse dai tre Dei, ma questi principi metafisici assoluti lasciano ben presto il campo ai due principi creatori, l'Attivo e il Passivo, i Due Spiriti che vengono identificati come la creatrice ed il creatore Izanami e Izanagi, la "Femmina‑che‑invita" ed il "Maschio‑che‑invita". Ad essi è demandato il compito di generare tutto ciò che esiste sulla terra e la discendenza divina che si perpetuerà nei secoli nella famiglia imperiale giapponese. Al di là degli intenti agiografici e deferenziali nei confronti dell'imperatore, che possiamo ben capire, è  importante qui mettere in luce la parte più autentica della tradizione orale  sull'origine dell'uomo contenuta nel Kojiki: essa ci conduce quasi per mano  dalle tre  Entità superne, che abitavano nella Pianura degli Alti Cieli (il "Dio Padrone del Centro Augusto del Cielo", il "Dio Alto Augusto Meraviglioso Creatore" e il "Dio Divino Meraviglioso Creatore") verso Deità più "terrestri".

Infatti, attraverso sette generazioni di coppie di dei, passiamo dagli Dei  Celesti che hanno nomi come "Dio Eternamente Residente nei Cieli" e "Dio Padrone Lussureggiante Integratore" a dei che si chiamano "Signore del Fango e della Terra", "Signora del Fango e della Terra", "Dio Integratore del Seme" e la sorella "Dea Integratrice della Vita"; seguono il "Dio e la Dea del Grande Luogo", il "Dio della Perfetta Bellezza" e la "Dea Signora dell'Orrido".

Da essi giungiamo finalmente al "Dio Maschio che Invita" e alla sorella, la "Dea Femmina che Invita".

 

Il lungo viaggio è finito, l'evento indicibile si è compiuto: una scintilla della mente  divina si è installata nel cervello dell'uomo. Il "Maschio che  Invita" e la "Femmina che Invita" sono discendenza divina che scoprono con gioia e turbamento, come due adolescenti, la diversità dei propri corpi e fanno l'amore procreando i luoghi della Terra e l'Umanità stessa.

I due esseri divini vengono dapprima incaricati dalle autorità celesti (che  come tali non scendono mai sulla Terra, e qui è doveroso un paragone con gli dei superiori babilonesi) di trovarsi un luogo opportuno dove costruirsi un talamo: a tal fine vengono dotati di una "lancia ingioiellata" che permette loro di consolidare una parte della superficie terrestre sulla quale atterrare  provenendo dal loro luogo di residenza, il Ponte Galleggiante del Cielo.

Qui giunti la coppia inizia la propria conoscenza carnale che Basil Hall Chamberlain,  traduttore dell'800, stante la scabrosità dell'argomento, ci  rende pudicamente in latino, con effetto irresistibilmente comico ai giorni nostri.

Seguiamo dunque questo stupendo corteggiamento divino:

 

Tunc quaesivit Augustus Mas Qui Invitat a minore sorore Augusta  Femina Qui Invitat: 'Tuum corpus quo in modo factum est?' Respondit dicens: 'Meum corpus crescens crevit, sed est una pars quae non crevit continua.' Tunc dixit Augustus Mas Qui Invitat: 'Meum corpus crescens crevit, sed est una pars quae crevit superflua. Ergo an bonum erit ut hanc corporis mei partem quae crevit superflua in tui corporis partem quae non crevit continua inseram, et regiones procreem?'

Augusta Femina Qui Invitat respondit dicens: 'Bonum erit.' Tunc dixit Augustus Mas Qui Invitat: 'Quodquum ita sit, ego et tu hanc  coelestem augustam columnam circumeuntes mutuoque occurrentes, augustarum partium augustam coitionem faciemus.'

Hac pactione facta, dixit: 'Tu a dextera circumeuns occurre; ego  a sinistra occurram.'

Absoluta pactione ubi circumierunt, Augusta Femina Qui Invitat primum inquit: 'O venuste et amabilis adolescens!' Deinde  Augustus Mas Qui Invitat inquit: 'O venusta et amabilis virgo!'  Postquam singuli orationi finem fecerunt, Augustus Mas Qui Invitat locutus est sorori, dicens: 'Non decet feminam primum verba facere.'

Nihilominus in thalamo opus procreationis inceperunt, et filium nomine Hirudinem peperunt”.

 

Ecco la mia traduzione dal latino:

 

“"Chiese allora l'Augusto Maschio che Invita alla sorella minore, l'Augusta Femmina che Invita: 'In quale modo è fatto il tuo corpo?' Ella rispose dicendo: 'Il mio  corpo crebbe sviluppandosi, ma vi è una parte che non si chiuse.' Disse allora  l'Augusto  Maschio  che  Invita: 'Il mio corpo crebbe sviluppandosi, ma vi è una parte che crebbe maggiormente. Non è quindi bene che quella mia parte del corpo che crebbe maggiormente io l'inserisca in quella tua parte del corpo che non si chiuse, così che possiamo procreare le regioni?' L'Augusta Femmina che Invita rispose: 'Ciò è bene. 'Disse allora l'Augusto Maschio che Invita: 'Affinchè ciò avvenga, tu e io, aggirando questo celeste talamo e venendoci reciprocamente incontro,  effettuiamo con le nostre auguste parti un augusto coito.'  Stipulato il patto, continuò: 'Procedi tu dalla destra, io perverrò dalla sinistra.' Dato seguito agli accordi, nell'incontrarsi per prima parlò l'Augusta Femmina che Invita:  'O bellissimo e amabile fanciullo!' Disse quindi l'Augusto Maschio che Invita: 'O meravigliosa ad amabile vergine!' Dette queste cose, egli continuò: 'Non conviene che la femmina sia la prima a parlare.' Comunque nel talamo diedero inizio all'opera   della procreazione e generarono un figlio che chiamarono Hiru‑go."

 

 

Spero che mi venga perdonato questo piccolo divertimento. Il lettore ovviamente potrà dare la sua lettura preferita all'intero episodio, ma confesso che la descrizione mitica dei due procreatori scesi sulla Terra con la loro "lancia ingioiellata" dal Ponte Galleggiante del Cielo occupa la mia mente con un fascino particolare.

E' interessante notare che il mito di Izanami e di Izanagi continua con la discesa della dea negli Inferi, seguita dalla ricerca della sposa da parte di Izanagi.

Ritroviamo con alcune varianti il mito classico di Orfeo ed Euridice: durante  l'incontro negli inferi Izanagi viene avvisato dalla dea della proibizione   di guardarla, proibizione che viene elusa con una serie di funeste conseguenze.

 

Questo è solo un esempio: ci sono molti altri aspetti di mitologia comparata che mi sembrano molto interessanti quando si tratta di indagare sulle ancestrali radici culturali comuni della specie Homo.

 

 

Riflessioni sulle donne di nove secoli fa...

«Ad quod notandum est, quod quinque sunt cause, quibus mulier denegat, quod postulat amans : prima est ex quadam occulta natura, quia naturaliter omnibus inesse videtur primo negare quesita ; secunda, ne, si propere tue condescenderet voluntati, crederes illam forte communem ; tertia, ut postulanti dulcius esse videatur, quod sibi fuerat longo tempore denegatum ; quarta, ut expectet sibi aliquid elargiri, antequam consenciat postulanti ; quinta, quia sunt plurime, que concipere pertimescunt.»

La traduzione:

“Al riguardo si dovrà tenere presente che sono cinque i motivi per cui una donna rifiuta ciò che un amante le richiede; il primo dipende da un certo aspetto occulto della natura per cui a tutte appare connaturato il negare in un primo momento ciò che viene richiesto; il secondo motivo consiste nel timore che tu possa giudicarla facile se lei concede subito ciò che brami; il terzo nel fatto che in effetti risulta più dolce, a chi lo chiede, ciò che gli è stato negato per lungo tempo; il quarto motivo è che la donna aspetta che le sia concesso qualcosa prima di acconsentire alle richieste; il quinto motivo è nel fatto che moltissime donne temono assai di rimanere incinte.”

 

Boncompagno da Signa (XII secolo), Rota Veneris, Salerno Editrice, Roma

 

 

Commento di sfuggita che alcuni miei confratelli chimici, negli ultimi decenni hanno messo a punto interessanti prodotti che di fatto eliminano la quinta causa… le altre quattro rimangono tutte d'attualità.

 

Un promemoria per i fanatici di oggi

«Non fatevi uccidere per le mie opinioni. Potrei avere torto! A nessun uomo è dato il privilegio di non sbagliare.» Questa fu la risposta del teologo eretico Ario [256-336 d.C.] ai propri seguaci che gli avevano proposto di muovere guerra ai cristiani ortodossi.

 

La traccia di un proto-romanzo

Uno pseudo-Ippocrate di duemila anni fa, si divertì a mettere in giro una raccolta di dialoghi e lettere che avevano come personaggi fittizi il vero Ippocrate [460-377 a.C.], il grande medico dell’antichità, alcuni amici suoi e Democrito di Abdera [460-360 a.C.], noto come Democrito l’oscuro per la complessità del suo pensiero.

Si tratta con tutta evidenza di un falso, ma ci fu chi lo prese sul serio.

La raccolta è stata pubblicata cura di Yves Hersant. Nella sua dotta prefazione, Hersant, con ragione, intravede in questa raccolta un “intreccio” e fa l’interessante riflessione che vi sia contenuta, in nuce, l’idea di un romanzo. Ne ho tratto questo divertente paragrafo, dal capitolo Ippocrate saluta Dionigi :

 

“Comunque sia vieni a trovarci. Alloggerai presso di me in condizioni eccellenti, perché mia moglie si tratterrà presso la sua famiglia d’origine per tutta la durata del mio viaggio. Tieni tuttavia d’occhio il suo comportamento; bada che si conduca assennatamente, e che l’assenza di suo marito non volga il suo pensiero verso altri uomini. È sempre stata onesta e i suoi genitori sono persone onorate – soprattutto il padre suo, un vecchietto con un coraggio fuori dal comune, che nutre nei confronti del male un odio straordinario. Ma una donna ha sempre bisogno di qualcuno che la moderi, giacché ha in sé per natura una certa intemperanza che, se non viene corretta giorno dopo giorno, si mette come gli alberi a buttare una vegetazione matta. Per conto mio, stimo che un amico sia per la consorte un guardiano più scrupoloso dei genitori: giacché non ha in sé quella familiarità affettiva che viene di continuo a velare l’ammonizione. La saggezza aumenta sempre con l’impassibilità, non turbata dalla benevolenza.”

 

[(pseudo) Ippocrate, Sul riso e la follia, Sellerio editore Palermo, 1999]

 

Leggendo Houellebecq...

Cependant, il reste du temps libre. Que faire ? Comment l’employer ? Se consacrer au service d’autrui ? Mais, au fond, autrui ne vous intéresse guère. Écouter des disques ? C’était une solution, mais au fil des ans vous devez convenir que la musique vous émeut de moins en moins.

Le bricolage, pris dans son sens le plus étendu, peut offrir une voie. Mais rien en vérité ne peut empêcher le retour de plus en plus fréquent de ces moments où votre absolue solitude, la sensation de l’universelle vacuité, le pressentiment que votre existence se rapproche d’un désastre douloureux et définitif se conjuguent pour vous plonger dans un état de réelle souffrance.

Et, cependant, vous n’avez toujours pas envie de mourir.

 

Michel Houellebecq, Extension du domaine de la lutte, 1994

 

Raccontini divertenti di un sant'uomo

Dal III secolo i barbari cominciarono a premere seriamente sul limes dell’Impero Romano. Provenivano dal nord dell’Europa: le attuali Germania, Danimarca, Scandinavia, Polonia, Russia, Ungheria, Ucraina. A loro volta erano premuti alle spalle da orde di popoli orientali, tra cui gli Unni di etnia mongola,  che migravano verso ovest.

Le invasioni continuarono sempre più massicce nel  IV e nel V secolo; la situazione politica a Roma divenne caotica, gli imperatori si succedevano più velocemente dei governi democristiani della Prima Repubblica. Per farla breve un bel giorno dell’anno di grazia 476 d.C., un condottiero germanico, Odoacre, a capo della sua armata arrivò a Roma, si fece ricevere dall’imperatore in carica, Romolo Augusto, più noto col diminutivo di Augustolo, e gli disse che poteva andarsene a casa, perché di imperatori romani in Occidente non ce n’era più bisogno. Odoacre spedì le insegne imperiali all’imperatore d’Oriente, al quale promise sottomissione e in cambio fu nominato governatore d’Italia, col titolo di patrizio. L’impero romano d’Occidente era finito per sempre.

Nel 590 d.C. , cioè solo 114 anni dopo la caduta dell’impero, divenne papa Gregorio I, che passerà alla storia col nome di Gregorio Magno. I cristiani cattolici e ortodossi lo venerano come santo e dottore della chiesa.

Accettò l’elezione e i suo grave fardello, in quei tempi calamitosi, dove l’antico ordine era crollato e il nuovo stentava a stabilirsi, con queste parole: “Vetustam navim vehementerque confractam indignus ego infirmusque suscepi”. [Presi il comando, io indegno e debole, di una nave vecchia e violentemente squassata].

Una frase che forse sarà rieccheggiata nella mente del professor Monti, quando decise di accettare l’incarico di presidente del Consiglio del “governo dei tecnici”, nel 2012.

Gregorio fu uomo di grande cultura e scrisse in ottimo latino potenti trattati di teologia; ma non disdegnò, nella sua raccolta intitolata I Dialoghi, l’umile parabola, il raccontino educativo, scritto in un latino più vicino a quello parlato da popolo: un “sermo humilis” spesso salace e divertente.

È interessante leggere il commento ai Dialoghi di Erich Auerbach:

 

“I Dialoghi comprendono quattro libri. Sono brevi storie, raccontate ad un ascoltatore […] Fra le storie ve ne sono molte di un’ingenuità estrema […] dappertutto affiora la lingua popolare, non soltanto nelle espressioni singolari, ma in tutto il tipo di descrizione; spesso un poco maldestro, talvolta molto diffuso, spesso scaduto a un tono da pia favola, spesso umoristico e grottesco […] L’atteggiamento di Gregorio nei Dialoghi è quello di un pio educatore che racconta storie: storie che sono dilettose e interessanti per gli ascoltatori, tanto che essi ascoltano volentieri, e giovano alla salvezza eterna e anche a quella terrena. Si avverte sempre la sua superiorità sull’ascoltatore. Egli parla agli ascoltatori come se fossero bambini…

 

Un raccontino tratta dell’abate Equizio: «Un giorno una serva di Dio dello stesso monastero entrò nell’orto; vide una lattuga, le venne desiderio, dimenticò di benedirla col segno della croce e la morse avidamente; ma subito fu afferrata da un diavolo e cadde a terra. E poiché si dibatteva, fu mandato a dire al padre Equizio che venisse presto e che soccorresse con la preghiera. Il padre era appena arrivato nell’orto, quando il diavolo che aveva afferrato quella cominciò, quasi scusandosi, a gridare dalla bocca di lei: Che ho fatto? Che ho fatto? Ero seduto sulla lattuga, lei è venuta e mi ha morso. Con grave indignazione l’uomo di Dio gli ordinò di andarsene e di non restare più in una serva di Dio onnipotente.»

Un altro racconta di un sacerdote Stefano:

«Un giorno, tornato a casa dal viaggio, senza badare alle sue parole disse al suo servo: vieni diavolo, levami le scarpe. Aveva appena parlato, e i lacci cominciarono a sciogliersi con grande velocità, così che era chiarissimo che il diavolo stesso, da lui chiamato, aveva obbedito all’ordine di togliergli le scarpe. Appena vide ciò, il prete si spaventò fortemente e cominciò a gridare a gran voce: vattene, miserbaile, vattene…

 

Non si può fare a meno di notare il tratto grottesco e umoristico, il diavoletto morsicato nell’insalata che si scusa piangendo come un ragazzo, e i lacci delle scarpe che si sciolgono con incredibile velocità; è proprio un’atmosfera da spiriti folletti. Qui il meraviglioso è spesso mescolato al grottesco. Ci sono morti resuscitati, uno prega con insistenza di essere liberato dalla tentazione dei sensi e viene castrato da un angelo; un serpente, per richiesta di un pio monaco, protegge un orto da un ladro; un ebreo costretto a passare la notte in un tempio di Apollo abbandonato (per precauzione si è fatto il segno della croce) assiste a un’adunata di demoni e dai loro racconti viene a sapere particolari sulle tentazioni carnali di un vescovo; una giovane di condizione elevata (Symmachi consulis ac patricii filia) decide di farsi suora dopo la morte prematura del marito, e non si lascia distogliere dal suo proposito nemmeno quando i medici le dicono quia nisi ad amplexus viriles rediret, calore nimio contra naturam barbas esset habitura, quod ita quoque post factum est. [Che se non fosse tornata agli amplessi virili, il troppo calore le avrebbe fatto crescere contro natura la barba, come poi accadde.]

 

Erich Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli, Milano, 2007

 

 

Procol Harum: A Whiter Shade of Pale

Su questo ermetico brano musicale sono state fatte innumerevoli congetture quanto  alla genesi ed all’ispirazione. Ho potuto appurare che le principali correnti di pensiero sono tre: il brano si riferisce a (1) l'affondamento del Titanic, (2) un party dove circolava più droga che aria e, (3) una novella appartenente a "The Canterbury Tales" di Geoffrey Chaucer.

Per questa mia versione commentata, parto dal presupposto che il testo sia stato ispirato dalla tragedia del Titanic.
Premesse diverse possono portare, sorprendentemente, a interpretazioni del tutto diverse.

 

Il narratore è un musicista dell’orchestrina che suonava nel salone da ballo del Titanic. L’urto con l’iceberg è avvenuto da molte ore e adesso è chiaro che la nave è condannata. Si inclina sempre di più, cominciano ad andare a pezzi gli arredamenti. 

 

We skipped the light fandango
Non abbiamo suonato il lieve fandango
Turned cartwheels 'cross the floor
C’erano carrelli rovesciati sul pavimento
I was feeling kinda seasick
mi  sentivo preso da una specie di nausea
But the crowd called out for more
ma la folla voleva ancora musica
The room was humming harder
La sala era sempre più animata
As the ceiling flew away
Mentre il soffitto se ne volava via
When we called out for another drink
Quando chiedemmo ancora da bere
And the waiter brought a tray
E il cameriere portò un vassoio.

 

Nel refrain che segue compare la misteriosa figura del “miller”. Ora miller significa principalmente “mugnaio”. Chi è? Immagino che possa essere un emigrante di terza classe, un poveraccio di mugnaio che voleva lasciare l’Europa per andare a cercar fortuna in America, uno dei sopravvissuti. Egli racconta una “favola”, la favola del Titanic,  forse ad un nipotino. Cosa dice? Dice che il “suo” volto (cioè il volto della nave, affettuosamente chiamata come una persona, squarciata dal ghiaccio, inclinata su un fianco, sul punto di spezzarsi in due) da spaventoso che era, mentre affondava, diventava di un pallore sempre piu pallido, scomparendo lentamente tra i flutti. Bellissima figura poetica!

 

And so it was that later
Così accadde, in seguito,
As the miller told his tale
Quando il mugnaio raccontò la sua favola
That her face, at first just ghostly,
Che la sua faccia, dapprima spaventosa,
Turned a whiter shade of pale
si cambiò in un pallore sempre più pallido.

 

Lei, la grande nave, gli dice che non c’è ragione di temere, perché lei è inaffondabile, questa è la verità che è sempre stata propalata. Ma lui consulta il suo mazzo di tarocchi ed essi gli dicono che non sarebbe stata come le altre “vergini vestali” (allusione alle altre nuove navi che in quall’anno affrontavano per la prima volta la traversata atlantica). Il buio avvolge il transatlantico morente: il musicista ha gli occhi spalancati, ma non riesce a vedere più nulla.

 

She said, "There is no reason
Ella disse: “Non c’è ragione [di temere]
And the truth is plain to see."
è la semplice verità”.
But I wandered through my playing cards
Ma io consultai i miei tarocchi
And they would not let her be   
così seppi che lei non sarebbe stata
One of sixteen vestal virgins
una delle sedici vergini vestali
Who were leaving for the coast
che erano partite per la costa [occidentale]
And although my eyes were open wide
E benché i miei occhi fossero spalancati
They might have just as well been closed
era come se fossero stati chiusi.

 

And so it was that later
As the miller told his tale
That her face, at first just ghostly,
Turned a whiter shade of pale.

 

La nave morente continua a parlargli… dice, sono solo in un congedo temporaneo dall’approdo. Ma il musicista si arrabbia e le risponde irato: sei a miglia e miglia dalla costa, cosa cavolo mi stai dicendo! E lei è costretta a dargli ragione, quando lui le dice, ironicamente: chi credi di essere, la sirena che prese in giro Nettuno? Lei allora gli sorride con tanta dolcezza,  che la rabbia subito si dissolve.

 

She said, "I'm here on a shore leave,"
Lei disse: “Sono solo temporaneamente lontana dalla costa,”
Though we were miles at sea.
benché ne fosse distante molte miglia in mezzo al mare.
I pointed out this detail
Glielo feci notare
And forced her to agree,
E la obbligai ad ammetterlo,
Saying, "You must be the mermaid
Dicendole: “Chi credi di essere? La sirena

Who took King Neptune for a ride.”
Che prese in giro Nettuno?
And she smiled at me so sweetly
E lei mi sorrise così dolcemente
That my anger straightway died.
che la mia irritazione subitamente svanì.


And so it was that later
As the miller told his tale
That her face, at first just ghostly,
Turned a whiter shade of pale


La fine si avvicina rapidamente. Il musicista elabora pensieri strani, dove tutto sembra andare a rovescio ed infatti è la nave che si sta rovesciando e la sua mente vaneggia con pensieri incoerenti. La bocca, disidratata, sembra voler penetrare nel cranio. Ogni riferimento spaziale si è ribaltato: tutto e tutti stanno precipitando rapidamente, per andare  a far parte del fondo oceanico. La tragedia si è compiuta.

 

If music be the food of love
Se la musica è l’alimento dell’amore
Then laughter is it's queen
allora la risata è la sua regina
And likewise if behind is in front
così come se il dietro diviene il davanti
Then dirt in truth is clean
allora il sudiciume in verità è pulito.
My mouth by then like cardboard
La mia bocca oramai di cartone
Seemed to slip straight through my head
sembrò scivolare attraverso la mia testa
So we crash-dived straightway quickly
così ci fracassammo affondando rapidamente
And attacked the ocean bed
per aderire al fondo dell’oceano.

 

And so it was that later
As the miller told his tale
That her face, at first just ghostly,
Turned a whiter shade of pale

 

Anaïs Nin - dai Diari (1)

“Quando lo guardo dalla mia finestra, il grande cancello di ferro verde assume l’aspetto del cancello di una prigione. È una sensazione ingiusta dal momento che so di poter lasciare questo posto quando voglio, e dal momento che so che gli esseri umani attribuiscono a un oggetto, o a una persona, la responsabilità di essere degli ostacoli, quando invece l’ostacolo è sempre dentro di noi.”

Anaïs Nin, Diario, Vol I, 1931-1934, Bompiani
 

Rotture

Rotture.
C’è chi ha rotto con il passato.
Chi è morto perché il freno si è rotto.
Chi si è salvato per il rotto della cuffia.
Chi si è rotto la testa per trovare una soluzione.
Chi ha rotto il fidanzamento e chi ha rotto la tregua.
Chi si sente come un giocattolo rotto.
C’è poi chi, semplicemente, si è rotto… a quest’ultimo va tutta la mia comprensione.
 

Herman Hesse Poesie d'amore

Una poesia di Hermann Hesse

 

Ich liebe Frauen

 

Ich liebe Frauen, die vor tausend Jahren

Geliebt von Dichtern und besungen waren.

 

Ich liebe Städte, deren leere Mauern

Königsgeschlechter alter Zeit betrauern.

 

Ich liebe Städte, die erstehen werden,

Wenn niemand mehr von heute lebt auf Erden.

 

Ich liebe Frauen – schlanke, wunderbare,

Die ungeboren ruhn im Schoß der Jahre.

 

Sie werden einst mit ihrer sternebleichen

Schönheit der Schönheit meiner Träume gleichen.

 

 

La traduzione è di Bruna Maria Dal Lago Veneri

 

Amo le donne

 

Amo le donne, che mille anni fa

Da poeti erano amate e celebrate.

 

Amo le città, le cui mura vuote

Piangono le famiglie reali di tempi remoti.

 

Amo le città, che risorgeranno

Quando dell’oggi non vivrà più nessuno.

 

Amo le donne – snelle, meravigliose,

che ancora non nate riposano nel grembo degli anni.

 

Assomiglieranno allora con le loro bellezze

Pallide come le stelle alle bellezze dei miei sogni.

 

 

Tiberiano: Inno al Deus Onnipotens

 

Anni fa, quando cominciai ad interessarmi di cosmologia, mi imbattei nell'Inno al Deus Onnipotens di Tiberiano, un autore della tarda latinità, vissuto nel IV secolo d.C.

L'Inno, sotto la specie di un componimento poetico di natura religiosa, cela una forte carica di curiosità cosmologica; si sente fortissimo l'anelito dell'uomo che di fronte alla magnifica e insondabile geometria del cosmo, grida al suo Dio di spiegargli come l'immensa macchina funzioni, come l'incomprensibile meccanismo possa essere colto dall'inadeguatezza della mente umana. 

Ne tentai allora una traduzione, con le deboli forze del mio arrugginito latino liceale. Poco tempo fa mi sono ritrovato di fronte il testo dell'Inno, nel dottissimo articolo di Francesco Perono Cacciafoco dell'Università di Pisa, pubblicato nella rivista Atene e Roma [2012, II Serie, VI fasc, 1-2, Le Monnier, Firenze]. Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che la traduzione colà proposta, mi ha grandemente aiutato a "sistemare" la mia precedente imperfetta traduzione, che propongo qui di seguito nelle versione emendata:

 

Onnipotens, annosa poli quem suspicit aetas,

quem sub millenis semper virtutibus unum

nec numero quisquam poterit pensare nec aevo,

nunc esto affatus, si quo te nomine dignum est,

quo sacer ignoto gaudes, quod maxima tellus

intremit et sistunt rapidos vaga sidera cursus.

 

Essere onnipotente, che l’antica volta celeste ammira,

che da millenni sempre è uno sotto mille attributi,

che nessuno potrà misurare col numero e col tempo,

            sii ora invocato, se è lecito invocarti con un nome

segreto del quale tu sacro ti compiaci, per cui la vasta terra

trema e le stelle vaganti arrestano il loro rapido corso.

 

Tu solus, tu multus item, tu primus et idem

Postremus mediusque simul mundique superstes:

nam sine fine tui labentia tempora finis,

altus ab aeterno spectans fera turbine certo

rerum fata rapi vitasque involvier aevo

atque iterum reduces supera in convexa referri,

scilicet ut mundo redeat quod partibus haustum

perdiderit, refluumque iterum per tempora fiat.

 

Tu solo e insieme plurimo, tu primo e anche

ultimo, e al centro, e colui che sopravvive all’universo:

infatti senza fine, sei la fine delle tue ere che si dissolvono;

dall’alto, per l’eternità, osservi il crudele destino delle cose

travolte dall’implacabile turbine del tempo, e le vite dissolversi nell’evo,

e le riconduci  di nuovo, reduci, alle sfere superne,

com’è naturale, affinché sia restituito al mondo ciò che, da esso estratto,

perdette, per poi ancora rifluire nel corso dei tempi.

 

Tu (siquidem fas est in temet tendere sensum

et speciem temptare sacram, qua sidera cingis

immensus longamque simul complecteris aethram)

fulmineis forsan rapida sub imagine membris

flammifluum quoddam iubar es, quo cuncta coruscans

ipse vides nostrumque premis solemque diemque.

 

Tu, (se pur sia lecito volgere in te la mente

            e sondare il tuo  sacro aspetto, col quale, infinito,

cingi le stelle ed egualmente abbracci l’immenso etere)

tu sei forse, sotto la travolgente immagine delle tue membra lampeggianti,

            il fulgore di fiamma che facendo tutto risplendere,

mostri a te stesso che superi  la luce del nostro sole e del giorno. 

 

Tu genus omne deum, tu rerum causa vigorque,

tu natura omnis, deus innumerabilis unus,

tu sexu plenus toto, tibi nascitur olim

hic deus, hic mundus, domus hic hominumque deumque,

lucens, augusto stellatus flore iuventae.

 

Tu stirpe completa degli dei, tu sorgente e motore delle cose,

tu natura tutta, dio innumerabile e unico,

tu ripieno di ogni forza generativa, da te nacque un tempo

questo prodigio, questo cosmo, dimora degli uomini e del divino,

splendente, scintillante dell’augusto fiore della giovinezza.

 

Quem precor, qua sit ratione creatus,

quo genitus factusve modo, da nosse volenti;

da, Pater, augustas ut possim noscere causas,

mundanas olim moles quo foedere rerum

sustuleris animamque levi quo maximus olim

texueris numero, quo congregesdissimilique,

quidque id sit vegetum, quod per cita corpora vivit.

 

Ciò di cui ti prego è una benevola illuminazione sulla ragione del creato,

da cosa è stato generato, e come;

concedi, o Padre, che possa conoscere le prime origini delle cose,

e con quali vincoli tu abbia sostenuto, remotamente, i mondi celesti,

e con quale lieve accordo remotamente li abbia animati,

            tu massimo e diverso da ciò che raduni,

qualunque sia la forza che muove gli astri veloci.  

 

 

Come si vede un poeta e filosofo pagano, quindi immerso in un ambiente politeistico, si rivolge ad un Dio, considerandolo per certi aspetti Dio unico; di contro lo chiama anche Tu solus, tu multus item e ancora Tu genus omne deum, un dio quindi unico e plurimo. Questa contraddizione è stata affrontata da Max Müller, introducendo il concetto di enoteismo, una concezione religiosa che prevede una sorta di superiorità di un solo dio, senza escludere la presenza di altri dèi in posizione del tutto subordinata. Ma ciò che più mi colpisce di questo poema, allora come oggi, è l'anelito a sapere, a capire il funzionamento del cosmo.

Oggi, anno 2013 d.C., la scienza moderna ha dato un grandissimo numero di risposte alle domande sull'universo, ma una domanda rimane, ineludibile: anche ammesso che si riesca a comprendere appieno la "dinamica" dell'universo, la sua origine, la sua espansione, il suo destino finale (che potrebbe essere una fine coincidente con un inizio, quindi un sistema ciclico ed eterno sul piano fisico) ecco dunque la domanda: perché l'universo esiste? Se la risposta sarà: c'è perché c'è, a questa tautologia perfetta ciascuno potrà dare il nome che più gli aggrada. Dio, per esempio.

Forse Baruch Spinoza avrebbe approvato questa idea.