Un assaggio, un aperitivo... diciamo un happy-hour

Come ho già detto da qualche parte, ho scritto fino ad ora diciotto romanzi. Mi propongo, di tanto in tanto, di presentare in questa sezione un incipit, o un piccolo brano, tanto per incuriosire i lettori...

 

 

Every dog has his day   (Ed. e-dEste)

Versione inglese di Romanzo d'una storia nata male (e-book)

Chapter 1

 

 

Aracena Alzira Cassilda Conceição Oliveira da Selva, known as Ara, needed to use the restrooms at Pennsylvania Station in New York, in the area of the New Jersey Transit Terminal.

Ara was Brazilian, of mixed race, half afro, forty to fifty years old, about that, a WOP, without papers. An illegal immigrant to the United States, subject to immediate expulsion if the police found her. She had been working off the books as a cleaner in a number of luxurious villas in New Jersey, but that morning she had decided to go to Manhattan to look for presents to send to her little niece in Brazil who had a birthday coming up. She arrived at Penn Station very early that morning. She looked around nervously to see if there were any policemen in the area, then she moved towards the restrooms. She emerged only moments later decidedly upset and, like a mouse that had walked straight into the gaping mouth of a snake, she ran towards two paunchy policemen patrolling the station. Her English was still fairly primitive.

“Help! Help!”

“What’s all this ruckus?” growled the sergeant.

“Rubbish bin…”

“What the hell does this bitch want?” demanded his younger colleague. “Have you been drinking? Let’s see your papers!”

“No papers. You come, rubbish bin crying.” Ara pulled the sergeant by his sleeve towards the ladies’ restroom.

The younger officer started reaching for his truncheon, ready for trouble, but the sergeant stopped him.

“Just a minute, don’t get carried away like you usually do. Let’s go see what’s happening.”

They followed her into the ladies’ restrooms and stared at the object indicated by the woman’s outstretched index finger. A large grey plastic bin. The domed cover had a swinging opening at the front; it was designed for throwing away used paper towels. A weak cry came from the opening. A baby’s wail. The two policemen paled. The sergeant whipped the top off the bin and began rooting frantically through the pieces of paper, pulling out the tiny body of a newborn baby with the umbilical cord still attached. Removed from his comfortable nest, the creature emitted a shrill scream.

That was me, officially entering human society at that moment and in that manner.

The terrified policeman handed me to Ara, who clutched me to her huge breast, warming me with her colorful scarf.

Ara, I owe you my life.

 

It was 1969 and the press and the television went to town with the story, which created a huge sensation. The tale of a poor black woman, who had escaped poverty in the favelas of Rio and was looking for the American dream, but risked sacrificing her ambitions for a white baby, abandoned by a cruel mother in a rubbish bin in the public restrooms, went all round the world. Journalists and columnists greedily dipped their lyrical, pathetic, sociological, political and moralistic croissants in this warm sugary cappuccino.

In the meantime, I had been taken to a hospital, where they stuck me in an incubator from which I emerged a month later, heartened physically and morally. A court declared me available for adoption and this gave rise to a noble competition between numerous claimants, who wanted to take care of the now famous restroom baby. The race was won by a rich gentleman, a member of the American diplomatic corps. A young ambassador, he wasn’t yet forty years old, but he had already held the position in capital cities of considerable importance.

Ara also had her moment of glory and she received a green card as a reward from the governor of New York State, for civil merit. She was alright; now she could legally work in the country where until a few days earlier she had been an illegal immigrant. The ambassador immediately employed her as my nanny. A black mammy, straight out of Gone with the Wind.

As for me, I took the surname of my adoptive father and I was baptized in a Protestant church, John William. John W. Lockwood. It sounded just fine.

Nella brughiera, per ritrovare se stessi   (Ed. e-dEste)

Capitolo primo

 

 

Ho un ricordo di molti anni fa, ero poco più di un ragazzo, durante una vacanza in Italia presso i miei nonni paterni. Una pubblicità sui giornali, uno spot alla televisione. Si vedeva una specie di landa desolata, una no-man’s-land, la vegetazione scarsa e selvatica, e boscaglia sullo sfondo: in questo paesaggio metafisico si aggirava solitario un uomo dall’aria assorta. L’espressione del viso sembrava riflettere  sublimi pensieri e interiori illuminazioni. Lo scopo di tutto questo scenografico travaglio, era di farci sapere che costui usava un deodorante di una certa marca. Il drammatico head-line diceva: “Nella brughiera, per ritrovare te stesso”.

Questo spettacolino mi parve fin da subito assurdamente comico e tutte le volte che lo vedevo mi veniva da ridere.

Ma era una risata incosciente, di uno che non aveva ancora avuto bisogno, nella vita, di ritrovare se stesso, poiché non si era ancora perduto.

 

Consultai la mappa che avevo avuto da Nestor. Ero convinto di trovarmi lì, proprio dove la mappa indicava una biforcazione: a sinistra il sentiero che portava al villaggio, a destra un altro sentiero che si inoltrava nella giungla, verso sud. Presi decisamente a sinistra. Il sentiero, a malapena tracciato, costeggiava una palude, mentre sul lato opposto si sentivano fluire, piuttosto rumorose, le acque di un fiume, come se in quel punto stessero prendendo velocità per buttarsi poi in qualche rapida o forse ancora più giù, in una grande cascata. Stranamente sulla mappa non vedevo segnati corsi di fiume. Camminai ancora per una buona mezz’ora e finalmente mi trovai in una specie di radura, più o meno circolare. Adesso alla mia destra il rumore dell’acqua era molto più forte. Dalla radura, che per tre quarti era circondata dalla palude, non partiva alcun sentiero. Ero arrivato a un punto morto, potevo solo tornare sui miei passi. Cominciò ad assalirmi una vaga angoscia, erano già le tre del pomeriggio e sarei dovuto essere arrivato al villaggio dei Guarani-Kaiowáda un bel pezzo. Un strano rumore attirò la mia attenzione, sulla sinistra; mi avvicinai e vidi un gruppo di coccodrilli che cercavano freneticamente di uscire dal pantano, guardandomi fissamente. La proda fangosa offriva poca presa ed era piuttosto ripida, ma mi resi conto che pian piano i rettili stavano guadagnando terreno; era solo questione di tempo, ma avrebbero raggiunto la radura. Mi voltai per fuggire e fu allora che lo vidi: aveva occhi verdi con riflessi dorati e un corpo dalle curve sinuose. Era un anaconda di lunghezza spropositata, avvolto in grandi spire e la testa enorme attaccata al collo incurvato a forma di esse, nella tipica posizione di attacco dei serpenti, per quanto ne sapevo. 

 

 

Romanzo d'una storia nata male [e-book e su carta, Edizioni dEste]

 

Capitolo 1

 

Aracema Alzira Cassilda Conceição Oliveira da Selva, detta Ara, si trovò nella necessità di usufruire dei servizi igienici della Pennsylvania Station di New York, nell’area del terminal New Jersey Transit.

Ara era una brasiliana, una sangue misto, mezza afro, quaranta, cinquant’anni o giù di lì, una WOP, una without papers, una illegal alien. Un’immigrata illegale negli Stati Uniti, passibile di provvedimenti per l’espulsione immediata se beccata dalla polizia. Lavorava in nero come donna delle pulizie in varie lussuose ville del New Jersey, ma quella mattina aveva deciso di andare a Manhattan per certe sue compere, regali da spedire in Brasile a una nipotina che compiva gli anni. Arrivò a Penn Station molto presto al mattino. Si guardò nervosamente attorno per vedere se c’erano agenti in vista. Poi si diresse verso i bagni. Ne uscì poco dopo in stato di grande agitazione e, con la stessa logica di un topo che si dirigesse verso le fauci spalancate di un serpente, corse verso due corpulenti poliziotti di ronda nella stazione. Il suo inglese era ancora molto primitivo.

«Aiuto, aiuto!»

«Cos’è ‘sto casino?» chiese burbero il sergente.

«Secchio de spazzatura…»

«Cosa cazzo dice ‘sta cretina?» intervenne il collega più giovane «Sei ubriaca? Dammi i documenti!»

«No documenti. Tu viene, secchio de spazzatura piange.» Ara tirava il sergente per la manica verso le toilette.

Il più giovane fece per intervenire di nuovo, mettendo mano al manganello, ma il sergente lo fermò.

«Aspetta, non fare il cazzone come al solito. Andiamo con lei a vedere cosa succede.»

La seguirono finoai bagni femminili e fissarono lo sguardo sul punto indicato dall’indice teso della donna. Un grosso contenitore di plastica grigio. Il coperchio, a forma di bassa piramide, aveva una lamina oscillante, sulla parte frontale, per gettarci dentro gli asciugamani di carta usati. Dall’apertura usciva un flebile suono. Il pianto di un bambino. I poliziotti sbiancarono. Il sergente tolse il coperchio del bidone, rovistò freneticamente tra i pezzi di carta ed estrasse il corpicino piccolissimo di un neonato, con ancora attaccato un bel pezzo di cordone ombelicale. Tolta dalla sua comoda cuccia, la creatura emise uno strillo acutissimo.

Ero io, entrato ufficialmente in quel momento e in quel modo a far parte della società umana.

Il poliziotto, terrorizzato, mi consegnò ad Ara, che mi strinse affettuosamente al grande seno, riscaldandomi con la sua sciarpa colorata. 

Ara. Le devo la vita.

 

 

La Nemesi Moldava [e-book, Edizioni dEste]

 

Capitolo primo

 

Sono l’ingegner Gualdo Gualdi. Così c’è scritto anche sui miei biglietti da visita nuovi fiammanti. Mi sono laureato con ottimi voti presso un prestigioso Politecnico. Volevo una vita normale, da ingegnere, con qualche soddisfazione professionale e, possibilmente, anche economica; invece mi è toccato di vivere un inizio di carriera assurdo, difficile, uno di quelli che ti segnano per sempre. Ho visto la vita da una prospettiva che non avrei mai potuto immaginare, pericolosa.

Ho sofferto di allucinazioni, poi di depressione. Ne sto uscendo faticosamente: il mio psicoterapeuta mi ha consigliato di mettere per iscritto i miei ricordi; dice che potrebbe giovarmi.

Può darsi che quanto andrò scrivendo non corrisponda esattamente alle cose che ho udito e che ho visto, però posso assicurare, in perfetta buona fede, che ho cercato di riportare ogni dialogo e ogni situazione il più fedelmente possibile, almeno per quello che la mia memoria, un po’ deteriorata, mi ha concesso. Chiedo perdono, è passato molto tempo.

 

L’edificio era gigantesco, un parallelepipedo che stimai avesse una base di circa cento per cento metri, alto, seppi poi, quarantacinque piani.

Un’imponente cancellata circondava il building delimitando un grande spazio verde di giardino all’inglese sui versanti nord-est e di giardino alla giapponese sui versanti sud-ovest. Calcolai che il parco nel suo complesso dovesse misurare almeno quattro ettari.

Fui ricevuto alla reception da un’impiegata che mi condusse in un’anonima, piccola saletta di riunione al piano terreno. Era una graziosa ragazza che indossava un leggero camice azzurro. A sinistra, sul petto c’era una targhetta col nome: Anna.

Fui lasciato solo e dopo una breve attesa entrò una donna sui trent’anni; mi sembrò bella anche se la sua avvenenza era come compressa in una corazza d’efficienza implacabile. Mi salutò con gentile distacco:

«Benvenuto ingegner Gualdi.»

Mancava un I suppose, ma rimasi impassibile.

Consegnai la lettera di convocazione. Mi disse che l’agenzia specializzata in ricerca di personale, dalla quale ero stato selezionato, aveva espresso parere positivo per un’assunzione in prova di sei mesi nella divisione Recuperi Energetici, potevo quindi iniziare il lavoro dal lunedì successivo. Entro pochi minuti sarei stato raggiunto dal direttore della divisione che mi avrebbe dato ragguagli sulle mie mansioni. Se ne andò altera, dopo un breve ed algido saluto.

L’ingegner Ubaldo Rave Santi era un uomo piuttosto alto, elegantemente vestito di scuro, sulla cinquantina, di fattezze che definirei medio orientali, anche se con persone provenienti da quell’area geografica confesso di non avere avuto frequentazioni significative. Gli occhi scurissimi emanavano una specie di forza che mi fecero stranamente sentire incollato alla sedia, dalla quale mi alzai a fatica, quasi incapace di dire un semplice buongiorno. Tuttavia, quando il direttore cominciò a parlare, mi fece sentire ben presto a mio agio e riuscii a parlare con un tono di voce più o meno normale. Mi sembrò di rispondere convincentemente alle sue domande. Esaurita la parte per così dire tecnica del nostro colloquio, assunse un atteggiamento più rilassato:

«Lei è al suo primo impiego, ingegnere. Forse l’ambiente in cui si appresta ad entrare le potrà sembrare più o meno strano, ma non diverso dal solito, dato che per lei il solito semplicemente non esiste, vero?»

Non ero sicuro di avere afferrato bene il senso, ma cercai di cavarmela con un vago cenno di assenso.

«Bene, tuttavia lei riesce ad immaginare un ambiente di lavoro solito, cioè quello che la maggioranza delle persone definirebbe un ambiente normale, il solito ambiente di lavoro, per l’appunto?»

 

«Sì, credo di sì», risposi titubante...

 

Ultimi Giorni del Corallo Buono [e-book, Edizioni dEste]

 

Sono l’io narrante.  

Però non ci sono.  

E la mia, quella che sto per raccontarvi, non è la storia di un uomo, è una storia che non c’è più. 

Lavoro e guadagno abbastanza bene. Vivo in una dimensione fisica delimitata solo da aeroplani, alberghi e aeroporti: null’altro. Il motivo è il mio lavoro. Osservo la gente, formulo qualche pensiero su qualcuno, oppure sul Paese in cui mi trovo. Ma nulla di ciò è davvero concreto e non cambia granché nella mia esistenza.  

Il passato non m’interessa più. 

Del presente vi ho già detto: sono uno socialmente inserito e sradicato allo stesso tempo. 

Per il futuro provo sentimenti ambigui, ad esempio uno strano senso di malinconia. Gli psicologi lo definiscono nostalgia anteriore, una nostalgia per il futuro, causata cioè da qualcosa che potrebbe esserci, che vorremmo ci fosse, ma in fondo sappiamo non ci sarà. 

Cosa faccio? 

Invento storie. Storie altrui. In realtà non so bene se siano invenzioni vere e proprie. Potrei anche averle sentite raccontare da qualche parte. O magari vissute. In ogni caso, mi vengono in mente e mi ci rifugio come una pulce tra i peli del cane: non conosco l’intero universo del cane che mi ospita, mi limito a camminare tra collo e coda, ad inventare il mio spazio.  

Nelle storie che mi riguardano invece, vissute come il sogno di un sogno, si confondono passato e futuro; a volte sono padrone di cambiarle, a volte loro cambiano me. Mi catturano, mi obbligano a convivere con pensieri che non vorrei pensare.  

Di seguito, eccone una.  

Ci ritroveremo alla fine, dopo il viaggio.

 

 

Romanzo rosa dipinto di blu [e-book, Edizioni dEste]

 

Capitolo zero o prefazione  

 

Sono arrivato, attraverso percorsi tortuosi, a quel punto della vita dove la vista si fa più acuta guardando all’indietro, mentre guardando avanti una curiosa aberrazione ottica, una disfunzione che definirei come la somma di una presbiopia più un’ipermetropia, impedisce di mettere a fuoco sia alla lunga che alla media distanza. Insomma si naviga a vista.

Quello che sembra di capire, giunti a questo enigmatico punto, è che il nostro spirito vitale, il fedele compagno che ci ha condotto fin qui, complice dispensatore di giochi, si è come stancato di noi.

Stancato, deluso. Deludere. Voce dotta, dal latino ludus gioco, de-ludere, prendersi gioco.

Deluso, perché ci siamo presi gioco dei giochi che ci ha proposti, nel corso del tempo. Di alcuni non abbiamo voluto imparare le regole, con altri abbiamo barato, ma siamo stati smascherati. In qualche caso abbiamo giocato bene, ma non sempre la posta vinta era all’altezza dello sforzo compiuto.

Va bene, non c’è molto che si possa fare, a questo punto.

Si può riflettere.

Riflettere sulla triade famosa di eventi: nascita, copula, morte. La prima azione ci è assolutamente estranea, indifferente, un grezzo dato di fatto su cui non abbiamo assolutamente nulla da dire. L’ultima azione ci è ben nota, ma non è veramente una nostra azione. Aspettiamo, a volte facciamo qualcosa di positivo, ad esempio curandoci per una malattia, altre volte agiamo in senso negativo, correndo a velocità folle lungo un’autostrada. Ma comunque è un evento in generale non programmabile, con l’ovvia eccezione dei suicidi. Ma in fondo anche il suicida s’illude, poiché quando crede d’impossessarsi della morte a sua discrezione, in realtà si impossessa del nulla, che per sua natura è adimensionale e atemporale.

Non c’è né volontà né programmazione, nel nulla.

Resta la copula su cui riflettere, con il suo contorno di amore, di sesso, di riproduzione, e le lotte per conquistare tutte queste cose, per dare dignità e futuro a queste tre cose. Tutti noi ci abbiamo provato, con mezzi e risultati diversi. Ognuno di noi può trarre i suoi bilanci, poiché fatalmente arriva l’ora dei bilanci. Come ho detto, vedo meglio, adesso, alle mie spalle, più che guardando avanti.

 

Un giorno, tanto tempo fa, solcavo il mare con un veloce motoscafo, quando una bombola per gas liquido che galleggiava tra i flutti, accortamente verniciata d’azzurro per renderla assolutamente invisibile, fracassò l’elica di destra. Fui così costretto a navigare con un motore solo, assai lentamente per molte ore, prima di raggiungere il porto più vicino. All’iniziale sentimento di furore e frustrazione che mi colse quando si verificò l’incidente, subentrò pian piano uno stato di assopita beatitudine, un totale disinteresse al fatto in sé. Mi piaceva quell’andatura da vecchio gozzo con un piccolo motore diesel, il mare appena increspato, il sole che lentamente andava calando alle mie spalle.

Non avevo più fretta, né ansie. Nulla di urgente mi attendeva, nessun bisogno di velocità, il tempo una variabile indipendente dal trascorrere della vita.

Ecco, ora mi sento come allora. Non ho premura.

Sto per raccontarvi come ci sono arrivato.

 

Uno strano caso di riprogrammazione neuronale spontanea

Capitolo primo

 

Nel luminoso mattino di settembre, io, l’ex capodivisione Almodio Siccomario, di anni trentanove, ero seduto davanti al vassoio della prima colazione (caffè, croissant, yogurt, spremuta d’arancia, banana), sul terrazzo della mia camera d’albergo a Montevideo, Uruguay. Disinteressandomi del breakfast, meditavo sul senso dell’esistenza, includendo correttamente nei miei pensieri considerazioni d’ordine metafisico e d’ordine escatologico. Quanto alla prima questione mi limitai a ricordare che ero nato in Italia, da padre italiano e madre argentina, di Rosario, una città non lontana da Buenos Aires. Consideravo spagnolo e italiano alla pari, quando mi chiedevano quale fosse la mia lingua madre. Dal punto di vista escatologico, i miei fini ultimi si identificavano stranamente con il presente: non volevo cambiare, né andare avanti, né andare indietro. Non volevo fare più niente. Dalla finestra della mia camera, ad un piano alto dell’edificio dello Sheraton Montevideo, guardavo la distesa azzurra del Mar del Plata. Fu in quel preciso momento che i miei circuiti neuronali subirono un salto quantistico dal livello superiore (ordine, disciplina, sacrificio) al livello inferiore (chi se ne frega, tiriamo a campare). La differenza d’energia tra i due livelli fu emessa sotto forma di sbadiglio cosmico.

 

 

Il principio di tutte le cose [e-book, Edizioni dEste]

 

Capitolo primo

 

Seguendo una delle mie peggiori abitudini, peggiori almeno secondo la mia ex-moglie, mi fermo spesso, all’improvviso, per leggere qualcosa. Che cosa? Di tutto. Trovo molto interessanti i vecchi giornali, fradici di pioggia, che giacciono inerti lungo i marciapiedi. Non li tocco, per motivi igienici, ma leggo quelle parti che sono esposte al mio sguardo. Sono affascinato dagli inserti che accompagnano molte pubblicazioni, di solito la gente li abbandona un po’ dappertutto, inserti pubblicitari, promozionali, l’argomento mi è indifferente. Mi piacciono i vecchi elenchi del telefono, ormai ridotti a brandelli, e certi fogli di quaderno che mi capita di trovare, spesso semi-illeggibili, con l’inchiostro scolorito dal sole e dall’acqua. Non so resistere alle lettere stracciate e buttate via: fonti misteriose di codici segreti.

Per una strana forma di megalomania minore, penso che ogni goccia di inchiostro usata per stampare qualcosa, mi sia stata riservata da un destino capriccioso che a volte mi fa trovare il messaggio, a volte no.

Venendo dunque al punto, devo ammettere che quella volta riuscii a superare me stesso: camminavo distrattamente verso casa, dopo avere passato alcune ore in libreria, dove era stata organizzata una presentazione del mio ultimo romanzo. La mia professione è quella di giornalista scientifico, ma dopo molti tormenti e ripensamenti mi ero deciso a pubblicare un romanzo che tenevo timidamente nel cassetto e poco dopo ne pubblicai un secondo. Godevo in quel momento di una piccola notorietà, i miei libri avevano avuto un discreto successo, una televisione si era persino scomodata per farmi un’intervista. Camminavo, stavo dicendo, verso casa dove abito da solo, quando vidi il sacco: era un comune sacco nero da spazzatura, insieme ai suoi confratelli, diligentemente impilato in attesa degli addetti alla nettezza urbana. Ma questo particolare sacco aveva una particolarità: era in più punti lacerato, direi da unghiate, gatti famelici pensai, così che parte del contenuto si era sparso all’intorno. Il mio sguardo fu fatalmente attratto da qualcosa, per me, assolutamente irresistibile: alcuni riquadri di carta, di colore azzurro pastello, coperti fittamente da scrittura... 

 

L'individuo B    (Ed. e-dEste)

 

Capitolo primo

 

La casa editrice l’aveva fondata a Milano mio nonno, Sir Henry Logan, di padre inglese e di madre italiana ed era stata poi continuata, immutabile nel tempo come le piramidi, da mio padre. Era una casa editrice monotematica, si chiamava L’Amo d’Oro, pubblicava solo libri dedicati alla pesca: d’altura, subacquea, in palude, alla lenza… un vero spasso.

Io ero entrato in azienda verso i ventiquattro anni, con liceo classico e laurea in lettere e filosofia alle spalle. Sull’editoria avevo idee completamente diverse.

Avrei voluto essere un vero editore, uno scopritore di talenti dal fiuto infallibile, un innovatore aperto agli esordienti italiani e stranieri, un maestro nel proporre nuove traduzioni e nuovi apparati critici dei classici d’ogni tempo. Ma mio padre aveva detto, se dio mi dà la salute lavorerò fino a settant’anni, poi mi ritirerò in campagna e dal quel momento farai quello che vuoi. Con mio padre c’era poco da discutere e poiché quando mi disse quelle parole aveva sessant’anni, passai dieci anni ad occuparmi di autori che avevano la fissa di ami e di esche.

Ero figlio unico e mia madre che ogni tanto mi sentiva imprecare contro i vermi o i mulinelli, mi esortava alla pazienza, ripetendomi:

“Luca, non prendertela, poi farai come vorrai, adesso non è giusto fare arrabbiare il babbo.”

 

Bene o male i dieci anni passarono, non in fretta come avrei voluto, ma insomma passarono. Ebbero il loro lato buono, perché comunque imparai un mucchio di cose: a trattare con gli autori e con i curatori, a negoziare con tipografi e rilegatori, a destreggiarmi con distributori e librerie. Soprattutto imparai che con i libri sulla pesca si guadagnava bene, così moderai le mie idee giovanili e quando venne la mia ora non buttai il nostro catalogo alle ortiche, ma ristrutturai l’azienda. La ragione sociale divenne Le Edizioni dell’ Alba e i libri sulla pesca costituirono una collana a sé stante, per la quale mantenni il nome L’Amo d’Oro, per non deludere troppo mio padre.

Istituii altre cinque collane, Anthropos per saggi sulle scienze umane, Logos per la filosofia, Demos saggi di natura politica e storica, Ipsos biografie, Fabula narrativa e Alloro poesia.

Feci sapere in giro, tramite compiacenti amici giornalisti, che Le Edizioni dell’Alba non avevano preconcetti nei confronti degli scrittori esordienti, anzi.

Ero convinto di vivere in un mondo ordinato e razionale, assolutamente certo che i miei propositi sarebbero stati compresi ed apprezzati da tutti: autori e pubblico.

Stabilii contratti di consulenza con ottimi lettori ed editor professionisti e mi misi in paziente attesa dei manoscritti.

 

Il genio sarebbe presto uscito dalla lampada…

 

Il Grande Arkan

Capitolo primo

 

Quando mio padre stava per morire, nella sua grande casa di campagna in Baviera dove aveva deciso di attendere la fine, ormai inevitabile, ci riunimmo tutti in camera sua: la ex-moglie con i suoi tre figli e io, in disparte, che ero rimasto orfano della mamma a undici anni. Poi il papà si era risposato.

Nella stanza, vasta, con una libreria ad una parete ed un angolo riservato a un tavolo da lavoro, c’era penombra e silenzio. Mio padre, nel suo letto a una piazza, respirava sempre più lentamente, penosamente. Il medico di famiglia gli era vicino e gli teneva il polso.

Mi aspettavo che papà, il grande, ricchissimo, potente Arkan Siragan Hakobian, che nella sua lunga e avventurosa vita aveva trattato con re e imperatori, ma anche con farabutti di ogni specie, esperto nel commercio di diamanti, di armi, di petrolio e di altre analoghe commodities, pronunciasse una frase destinata a restare nella storia, un’altra Mehr licht!, per intenderci.

Invece disse:

«Il notaio vi dirà come fare», mormorò flebile.

«Come fare cosa, Arkan?», gli chiese premurosa la ex-moglie.

«Come fare per vivere con quello che vi ho già lasciato, perché non ci sarà altro.»

E morì sereno, così come aveva vissuto negli ultimi anni della sua vita.

 

Mia madre era italiana e mio padre non so bene. Certamente di etnia armena, era nato in Egitto e poi so che da giovane visse alcuni anni in Argentina e non so dove altro. So che aveva molti passaporti, diplomatici e non, passaporti di servizio, li chiamava lui.

Un uomo molto misterioso, ai miei occhi di bambino. Anche ai miei occhi da adulto, devo ammettere. Lo avevo visto poco quand’ero piccolo, vivevo con la mamma a Monaco di Baviera e lui era sempre in viaggio. Non so bene cosa facesse, né da dove venisse. La mamma mi diede confuse spiegazioni sul fatto che verso la fine degli anni ’30 papà era comparso a Roma da chissà dove, con ottime credenziali in tasca, aveva allacciato importanti relazioni con esponenti di spicco del governo fascista e con alti personaggi dell’ambiente militare. Era un bell’uomo, affascinante, mi aveva detto, e dimostrava più anni della sua età; si erano conosciuti ad un ballo dell’ambasciata tedesca nel ’40, dove lei lavorava come segretaria particolare del console, ma solo nel ’48 le aveva chiesto di sposarlo, e lei disse di sì, senza pensarci su troppo. Prima, però, agli inizi del ’41, mio padre decise di trasferirsi a Milano, dove entrò in contatto con i dirigenti di alcune tra le maggiori industrie belliche italiane, soprattutto nel settore dei motori per aereo. Non si vedevano molto, in quel periodo. Dopo l’otto settembre del ’43, mio padre si trasferì in Germania, a Monaco e allora anche la mamma chiese il trasferimento in quella città. Lei parlava molto bene il tedesco, e infatti proprio questa conoscenza le aveva aperto le porte dell’ambasciata; in Germania, per la prima volta in vita sua, scoprì che il suo futuro marito parlava tedesco come un professore di Gottinga. Provò a chiedere spiegazioni, ma lui tagliò corto, dicendo che un mucchio di gente al mondo parla tedesco e che non era una questione rilevante. Fu allora che fu acquistata la casa di campagna in Baviera.

Per un paio d’anni il papà rimase stranamente tranquillo. La mamma mi raccontava che allora lei era contenta di questa situazione così insolita. Si sposarono nel 1948, come ho già detto.

 

Verso i dieci anni cominciai a fare domande a mia madre, la maggior parte delle quali riguardavano mio padre, che cominciava ad assumere ai miei occhi quell’alone mitico che mi avrebbe seguito per tutta la vita.

«Mamma, che lavoro fa il papà?»

«Vende prodotti industriali.»

«Cosa sono i prodotti industriali?»

«I prodotti che servono alle industrie.»

«Cosa sono le industrie?»

«Sono le imprese che fabbricano le cose.»

«Quali cose?»

«Tutte.»

«Quindi il papà vende tutto?»

Mia madre mi osservò, in silenzio, con uno sguardo strano che ricordo ancora oggi. Poi rispose:

«Credo di sì.»

Un giorno, ero già un ragazzino, facevo la prima media, le chiesi, parlando con lei, come sempre, in italiano:

«Mamma, una volta mi hai detto che il papà, in Germania, durante la guerra, non lavorava più.»

«Sì, è vero… »

Mi guardava con aria interrogativa.

«Ma tu non eri curiosa di sapere cosa succedeva, perché le cose erano cambiate?»

Allora lei mi riferì questo dialogo, dicendomi che avvenne proprio nel giorno di Natale del ’44.

«Arkan, non lavori più?»

«Mi riposo solo un po’… »

«Corriamo dei pericoli?»

«No, non preoccuparti. Appena questa banda di idioti nazisti saranno tutti morti, e non ci vorrà molto, te lo assicuro, la Germania sarà in breve tempo ancora un grande Paese e si potranno fare da qui grandi affari.»

«Che affari, Arkan?»

«Gli affari miei.»

«Capisci Yeprèm», mi disse la mamma, «tuo padre rispondeva sempre così, gentilmente, senza alzare la voce, ma era chiaro che l’argomento da quel momento era chiuso. Infatti me ne andai in cucina a preparare il pranzo.»

 

Il Giureconsulto

Capitolo 1

 

Il giorno di Natale dell’anno di Nostro Signore 1116, mia madre si sgravò di me e rese, riconoscente, l’anima a Dio.

 

Il barone Archibald von Isenburg, mio nonno paterno, appartenente alla piccola nobiltà della Sassonia e morto in età avanzata, mi raccontava, quando io ero ancora ragazzino, forse quattordici o quindici anni, che l’anno 999 in Europa era stato un anno straordinario. Suo nonno gli aveva narrato di una massa di fanatici che andava predicando, in giro per le contrade, la fine del mondo.

«Perché, nonno?»

«Stupidaggini, interpretazioni balorde delle sacre scritture, dalle quale era stata ricavata la profezia mille e non più mille…»

«Ma allora perché non l’anno mille?»

«Beh, era quello che pensavo anch’io, ogni millennio finisce l’ultimo giorno di dicembre del millesimo anno e ogni nuovo millennio comincia, un istante dopo la mezzanotte, il primo di gennaio.»

«Ma il mondo non finì né in quell’anno, né in quello successivo...»

«Infatti. Cominciarono quindi a dire che la profezia voleva dire: il mondo durerà mille anni dopo Cristo e poi per un altro periodo indefinito, comunque al massimo non più lungo di altri mille anni.»

«Ma tu pensi che il mondo finirà entro il nostro millennio?»

«No, né in questo, né nel prossimo… il mondo è un oggetto fisico e obbedisce alle leggi degli oggetti fisici, solo l’anima è soggetta alle leggi morali delle sacre scritture. L’unica cosa che potrebbe succedere è che anche alla fine del nostro millennio, l’umanità di allora ne celebri o ne tema la fine alla mezzanotte del 1999, anziché alla mezzanotte del 2000… vi sono forme d’imbecillità nella nostra specie che in alcuni casi sono stranamente ereditarie…»

Questi e altri furono gli insegnamenti che ricevetti dal nonno; ripensandoci oggi, mi sembra che avesse sempre voluto abituarmi a ragionare con la mia testa e a non prestare l’orecchio a vane fanfaluche, un atteggiamento mentale che in tempi bui, come quelli presenti, può attirare un mucchio di guai. Il nonno morì nel 1122, quando aveva sessant’anni. Più avanti negli anni mi capitò di pensare che era morto proprio nell’anno in cui nacque Eleonora duchessa d’Aquitania e, non so perché, da allora ho sempre visto misteriose congiunzioni tra le date di nascita e di morte delle persone che più influirono sulla mia vita. Ma di Eleonora avrò modo di parlare in seguito.

 

Ero studente a Parigi, nello studium di Guglielmo di Conches. Correva il 1135. Stavo frequentando i corsi che mi avrebbero portato, entro tre o quattro anni, al dottorato in utroque iure: avrei potuto dunque esercitare le mie competenze di giureconsulto sia in diritto civile che in diritto canonico.

Mio padre Bronislaw, vassallo dell’imperatore e sottoposto alla giurisdizione del granduca di Sassonia, aveva voluto che studiassi a Parigi, con argomentazioni che mi parvero convincenti:

«Vedi Ulderico, ho notizie certe che l’insegnamento superiore è in una fase di evoluzione a Parigi, dove alcune scuole si stanno svincolando dal potere religioso.»

«Come è possibile? Solo i vescovi possono decidere ciò che può essere insegnato, e come. E ciò che si insegna è solo diritto e teologia, a parte medicina che fa in certo qual modo a sé. E gli insegnanti sono religiosi, ecclesiastici o monaci.»

«Non a Parigi, ti ripeto. Nel suo studium, con grave scandalo dei conservatori, Guglielmo di Conches ha pubblicato il suo Philosophia Mundi, un compendio di nuove conoscenze scientifiche e visioni del mondo che cominciano ad arrivare in occidente attraverso i testi arabi, tradotti in latino. Molti di questi trattati in lingua araba sono lavori originali, ma altri sono in realtà testi greci, mesopotamici, latini che gli arabi hanno tradotto nella loro lingua. Costantino l’Africano è tra coloro che hanno fatto affluire in Europa i libri delle biblioteche arabe. Mi dicono che schiere di studenti puntano su Parigi per accedere a questo nuovo sapere, e tu non sarai da meno.»

«Ma, padre, non capisco… i testi latini e greci dovremmo averli anche noi, perché dobbiamo passare attraverso l’arabo?»

«Certamente l’Europa è piena di libri, di antichi testi originali, ma sono in qualche modo come sequestrati, posti sotto il controllo della Chiesa, nelle grandi biblioteche dei monasteri. Ogni monastero ha uno scriptorium dove questi volumi sono studiati e copiati, ma la loro circolazione al di fuori dalla Chiesa è assai scarsa. Gli stessi testi cristiani, quelli dei Padri della Chiesa delle origini, sono difficili da reperire al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori.»

«Mi rendo conto… d’altra parte pochi sanno leggere e scrivere e chi sa leggere e scrivere è uno studente, un chierico che impara e studia sotto la guida di maestri ecclesiastici. Mi sembra che così il cerchio si chiuda.»

 

Una Vita Complicata            Ed. Mursia

 

Prologo

 

Oggi, 29 novembre, compio gli anni. Settanta precisi. Sono solo, in un appartamento di Milano, Italia, anno di grazia 1947. La città è per metà distrutta, per l’altra metà malconcia. I bombardamenti alleati ininterrotti dal 1943 al 1945 hanno provocato danni enormi. Gli abitanti lavorano però alacremente per rimuovere le macerie, demolire ciò che non può essere restaurato, riparare il riparabile. Si vedono i primi cantieri edili, c’è voglia di rinascere, voglia di ricostruire.

Non ho nulla da fare.

Sono arrivato qui dalla Germania fortunosamente, dopo la caduta di Berlino, città nella quale mi trovavo nel maggio del 1945.

Non so cosa fare.

Ho un po’ di soldi da parte, in Svizzera, perlomeno non ho problemi a mangiare due volte al giorno ed ho un tetto sulla testa. Le autorità di polizia italiane mi hanno rilasciato provvisoriamente un passaporto per apolidi, mi sono dichiarato soldato di una divisione rumena conglobata nella Wehrmacht, scampato dalla battaglia di Stalingrado, fuggito attraverso l’Ucraina ed i Balcani, camminando e nascondendomi, affrontando un interminabile viaggio a piedi, senza documenti, tra mille insidie. I tedeschi mi avrebbero fucilato come disertore, i russi avrebbero fatto lo stesso come collaboratore dei nazisti. Ho affermato che non voglio tornare in Romania perché chi ha combattuto con i tedeschi è malvisto dall’attuale governo comunista di obbedienza sovietica. La mia storia sembra avere funzionato, almeno per il momento, mi hanno detto che potevo restare, avrebbero fatto accertamenti, ma ho l’impressione che in questo fosco dopoguerra italiano, con la minaccia di una guerra civile che incombe tra fazioni comuniste fedeli a Mosca e anticomunisti propensi all’alleanza con gli Stati Uniti, il Ministero degli Interni abbia altro da fare che occuparsi di me.

Comunque, un paio di mesi dopo aver ricevuto il permesso di soggiorno, fui convocato in Questura e posto a confronto con un funzionario del Consolato Rumeno, per accertare perlomeno che la mia nazionalità fosse quella dichiarata.

Un brigadiere ci fece accomodare in una stanza con un tavolo e tre sedie.

L’inquisitore si rivolse a me in rumeno:

«Allora tu dici di essere rumeno», disse sarcastico.

Aveva l’accento inconfondibile della regione rurale carpatica.

«E come ti chiameresti?»

«Mihai Lupescu».

Era uno dei miei cento nomi di copertura quando lavoravo nei servizi segreti.

«Ah, e quindi confermi», disse guardandomi beffardo.

Mi ero stancato di questo impiegato rompiscatole e decisi che era meglio farlo incazzare, per non lasciargli il tempo di elaborare domande più complesse.

«Confermo di essere rumeno di Bucarest, non uno ţăran [1] mungivacche di merda come te».  

«Segnalerò il tuo caso alla Securitate, figlio di puttana», mi sibilò in faccia come un serpente a sonagli al quale avessi schiacciato la coda.

«Quelli della Securitate sono troppo occupati a fottere tua madre e le tue sorelle, mungivacche dei miei coglioni».

La simpatica conversazione ebbe termine qui. Il funzionario del Consolato, paonazzo in viso, si alzò e si rivolse in italiano al brigadiere che era rimasto seraficamente impassibile durante l’aspro scambio di battute.

«Sì, è rumeno, per la precisione il rumeno più stronzo di tutta la Romania. Manderò una richiesta di informazioni e vi farò sapere. Buongiorno».

Se ne andò furibondo.

Sono dunque capitato in Italia per caso, come se stessi fuggendo da qualcosa, ma non so di preciso da cosa. Forse dal mio passato. Conosco poco o niente la lingua, non so se mi fermerò qui, o andrò in Spagna o forse in Sud America. Per il momento sento il bisogno di riordinare le idee, così ho deciso di rivedere i miei appunti, che ho annotato negli anni in forma sintetica, su molti taccuini. Li chiamo pomposamente il mio archivio. Sento che scrivere la storia della mia vita mi farà bene. Forse sarà interessante anche per voi.

 

[1] ţăran: buzzurro, cafone

 

 

La cerimonia delle peonie [e-book, Edizioni dEste]

 

Capitolo 1

 

«Era un tipo grande e grosso, capisci, roba da non credere, con i capelli che gli ricadevano sulla fronte lombrosianamente criminale, un tabarro nero sulle spalle, e non è tutto... »

«Che altro, dunque?», chiesi incuriosito.

«Girava per le strade della città con una mannaia da macellaio, sporca di sangue, legata al collo con un legaccio di cuoio.»

«Roba da pazzi.»

«Appunto. E poi si avvicinava alle vecchiette, appostandosi fuori dai supermarket.»

«Oddio! E poi?», gli chiesi con orrore, ma avido di sapere.

«Poi le aiutava ad attraversare la strada e, se necessario, portava anche i sacchetti della spesa.»

«Va bene, accidenti a te, e poi?»

«E poi niente, capisci, una volta che le vecchiette erano a posto, sul portone di casa, le salutava e se ne andava.»

«Ma insomma!», esclamai deluso, «e la mannaia?»

«Beh, era stato assunto, dopo anni di disoccupazione, come garzone aiutante in prova da un macellaio, e ci teneva a fare sapere a tutti che lui non era più un disoccupato, ma che aveva un lavoro e si guadagnava da vivere.»

«Arturo, ma fammi il piacere!»

 

Il mio amico Arturo, considerato da tutti un genio dell’informatica, era fatto così, ti tirava dentro delle storie apparentemente interessanti e poi ti mollava, sul più bello, senza una ragione. Secondo me era completamente pazzo, ma si diceva in giro che da ragazzo fosse un tipo normale, poi un amore non corrisposto gli aveva mandato i neuroni un tantino fuori registro. Era un bell’uomo, di alta statura e con un fisico atletico che, in condizioni normali, non avrebbe certo avuto alcuna difficoltà a far conquiste in campo femminile, e questo rendeva il mio amico ancora più incomprensibile ai miei occhi.

Avevo cercato di saperne di più, interrogandolo discretamente su questa vicenda, ma per molto tempo non ero riuscito a cavarne niente. Sul tema, mutismo assoluto, oppure inevitabile cambio di argomento. Ma pian piano, con pazienza e sobbarcandomi infiniti fastidi, qualcosa ero venuto a sapere.

 

Una donna cominciò a gridare, in una lingua che classificai subito come lingua dravidica, certamente tamil: mi restava tuttavia il dubbio se si trattasse di Tamil-Kodagu o di Tamil-Malayalam. La cosa però al momento costituiva in effetti un problema secondario, perché ciò che più mi colpì fu il significato delle frasi che la donna stava ripetendo, con le lacrime agli occhi:

«Aiutatemi, per favore, aiutatemi, sto per partorire!»

Le consigliai prontamente di scendere, alla prima stazione, dal vagone della metropolitana, linea gialla, sulla quale ci trovavamo in quel momento, cosa che lei fece. Era la stazione Montenapoleone ed io la seguii. Il secondo consiglio che le diedi fu quello di sdraiarsi sul pavimento della banchina, di stare calma, e di attendere i soccorsi che io avrei immediatamente chiamato. Si radunò un capannello di curiosi. La donna, giovane e robusta, dai larghi fianchi che deponevano a favore di una certa qual facilità alla procreazione, seguendo l’istinto atavico si sollevò le gonne e si tolse le mutande. Dal capannello di curiosi, si levò un brusio, composto da brevi commenti, di natura assai diversa secondo la sensibilità individuale. Quando la testa del neonato fece capolino tra le gambe della donna, uno dei curiosi all’improvviso impallidì vistosamente, si allontanò di pochi passi e cadde svenuto al suolo. Il capannello dei curiosi, stanco di curiosità ostetriche, si sciolse per riformarsi subito dopo intorno all’uomo al suolo, elaborando a bassa voce nuovi commenti e considerazioni. Quasi contemporaneamente all’arrivo degli infermieri della Croce Rossa, si udì un sonoro, acutissimo strillo, dell’ultimissimo arrivato sul pianeta Terra. Un millesimo di secondo più tardi fu riclassificato come penultimo.

 

«Flicaberto, non sapevo che tu conoscessi anche il tamil», mi disse la marchesa Virgiliana van Meerrettich von Kren, nel suo italiano con forti accenti olandesi e con quella sua voce leggermente roca che un tempo faceva impazzire gli uomini.

 

 

I giorni e le opere di un promettente esordiente

 

Capitolo 1

 

“Magica Tangeri, città di tangheri, tangueros, ballerine di tango o di danze di panza, indomite gazzelle dagli occhi viziosi torbidi di vizi, impenitenti e pur tuttavia penitenti, le feste comandate. Qui mi ritrovai, in andata forse senza ritorno, cercando salvezza dai mali miei. Alti lai. Nacqui, per così dire, annacquato da un acquazzone, in Mozambico, sotto un fico, provvisorio rifugio di una madre che non conobbi. Ella scambiò la sua vita con la mia, amen e così sia. Le suore italiane si presero italicamente cura di me, dissero che era stato un miracolo, ma infine sempre la vita lo è. La mamma, per quanto ne so (ma lo seppi molto dopo), era circa una circassa, caucasica più o meno, mi dissero, contrabbandava in Africa oppio (e derivati) contro diamanti. Occhi verde dollaro e capelli d’oro. Le buone madri mi registrarono all’anagrafe nel 1956, come Deodato Dal Fico, un’allusione non particolarmente elegante alle mie misere origini, inquantoché.

Razza bianca, occhi azzurri, capelli biondi. Un tipo non tipicamente locale. Nel senso di.”

[Pseudonimo: Sans Serif 1]

 

Il bando del concorso letterario Un Incipit per il Romanzo del Secolo diceva chiaramente: non più di venti righe da sessanta battute e fin qui niente da dire. Quell’incipit rispettava la prescrizione. Il tema era libero e l’Autore doveva restare anonimo, coperto da un nom de plume. Anche queste regole erano state rispettate. Tuttavia il colonnello a riposo André de la Barricade-Théodore continuava a rigirarsi nervosamente il foglio tra le mani. Era certo che la Presidentessa del circolo culturale, di cui si onorava di essere segretario, con sede a Roma in Piazza di Spagna, non avrebbe apprezzato. Quella prosa sgangherata poteva solo essere fonte di fastidio, se non addirittura di manifesta irritazione, per la marchesa Klaartje van Bordewijk-Snellenburg, coniugata Bombazzi, Presidentessa e inflessibile custode delle tradizioni letterarie del Circolo de’ Congiuntivi, una associazione fortemente voluta dalla van Bordewijk-Snellenburg stessa, e sorta con lo scopo di difendere la purezza della lingua italiana. Con quell’iniziativa, la marchesa aveva voluto sancire la sua totale adesione culturale alla terra che l’aveva accolta e nella quale mai avrebbe voluto sentirsi straniera.

Ma il colonnello non poteva fare diversamente: appose il timbro datario che stabiliva la data di ricezione, siglò il foglio e lo aggiunse al mucchio di altri fogli che dovevano essere inoltrati al Comitato di Lettura.

Ciò che sarebbe accaduto in seguito era minuziosamente descritto nel bando di concorso. Gli autori degli incipit che avessero ricevuto l’approvazione del Comitato, sarebbero stato invitati, via e-mail, a inoltrare il seguito del romanzo, non necessariamente in un’unica soluzione, ma anche in parti separate, purché consequenziali. Il tempo concesso era di tre anni a far tempo dal primo invio.

Alla chiusura dei termini di presentazione, questi testi sarebbero stati sottoposti ad editing e poi al vaglio di una prestigiosissima Giuria: i tre primi classificati sarebbero stati pubblicati in italiano e in altre quattro lingue e presentati al salone del Libro di Francoforte.

 

Il Comitato di Lettura era presieduto dal commendator Ercole Bombazzi, coniuge della marchesa Klaartje, nonché unico erede dell’immenso patrimonio familiare e industriale della Bombazzi & C., Salumifici e Caseifici Lodigiani, 1823. Un cospicuo finanziatore del Premio organizzato dalla consorte...