La dolce ala della giovinezza

Moonraker. L’aveste visto ieri sera in televisione con Roger Moore/007? Io sì, dopo molti anni. Me lo ricordavo a sprazzi, ma la scena (brevissima) in cui “Q” mostra a Bond la formula del misterioso gas nervino attorno al quale gira tutto il film, è assolutamente esilarante. “Q” spiega a Bond che questa sostanza uccide gli umani, ma non gli animali e le piante, e già questa caratteristica ne fa un vero fenomeno biochimico. Allora Bond chiede di vedere la formula e dopo un rapidissimo sguardo capisce immediatamente la pericolosità di questo agente tossico che, afferma con sicurezza, si estrae da una rara orchidea nera il cui habitat è la foresta amazzonica.

Vabbè, però Ian Fleming poteva dircelo che in realtà Bond era il cattedratico di chimica organica a Oxford! Sta di fatto che a quel punto non ho resistito e sono andato a controllare la formula, rivedendo il film in internet e trovando il punto esatto in cui compare, con il fermo immagine. Un vero incubo! Chi l’ha disegnata per la produzione del film si dev’essere veramente divertito. Ci ha messo dentro un decaidroantracene 1-9 sostituito che è uno spettacolo. C’è un tri-estere tiofosforico con un bel residuo nitrofenilico, una propan-alfa-chetoaldeide (?), un misterioso radicale sulfinilico con lo zolfo a numero d’ossidazione 3, mai visto in natura. Quello che mi ha commosso è il sostituente in 1, contenente il radicale del ciclopentano propionato, esterificato con un improbabile metil-carbossi-ossiciclopentene.

Commosso? – diranno subito i miei piccoli lettori. 

Sì, perché l’acido ciclopentanil-propionico è stata la prima molecola organica che ho sintetizzato in laboratorio al IV anno di università.

La dolce ala della giovinezza. 

Le Terre Rare: una setta segreta nella tavola periodica degli elementi

 

Introduzione

Per parlare di Terre Rare in chimica, occorre prima fare un breve riferimento storico a un grande chimico russo, Dmitrij Ivanovič Mendeleev  (Tobol'sk, 8 febbraio 1834 San Pietroburgo, 2 febbraio 1907). Al suo nome è legata la Tavola Periodica, una forma grafica di classificazione di tutti gli elementi chimici che compongono la materia sulla Terra e, per quanto ne sappiamo, nell’intero cosmo. La tavola ha avuto i contributi di numerosi scienziati, ma Mendeleev fu colui che fornì un geniale sistema di classificazione che permetteva di ottenere previsioni attendibili sulle “caselle vuote”, cioè gli elementi a quel tempo non ancora scoperti.

Mendeleev si laureò in chimica e ottenne il dottorato di ricerca nel 1865. Pose mano alla sua famosa tavola nel 1868: l’impatto del suo lavoro fu enorme, perché per la prima volta ci si rese conto che gli elementi stabili noti (a quel tempo solo 63 su 92!) potevano essere ordinati secondo criteri logici che coinvolgevano il peso atomico crescente, concetto relativamente recente, introdotto dal chimico svedese Jons Jacob Berzelius (1779-1848) solo pochi anni prima. [Si vide in seguito che il criterio esatto per la classificazione doveva basarsi in realtà sul numero atomico degli elementi, cioè sul numero di elettroni che ruotano intorno al nucleo dell’atomo di ciascun elemento, ma per allora i risultati erano sufficientemente accurati].

Questo tipo di classificazione permetteva di raggiungere due importanti risultati: (1) poter raggruppare elementi diversi in classi omogenee in quanto a caratteristiche chimico-fisiche e (2) poter predire le proprietà degli elementi sconosciuti, le caselle vuote, che andavano a cadere in una delle classi individuate. I primi elementi scoperti dopo la pubblicazione della tavola, le cui proprietà confermavano perfettamente le previsioni, furono scandio [Sc], gallio [Ga] e germanio [Ge]. [Tra parentesi i corrispondenti simboli chimici].

 

Le Terre Rare

Si tratta di un gruppo di 17 elementi chimici (in inglese “rare earth elements”) che devono il loro nome al fatto di essere contenuti in minerali abbastanza inconsueti, se non decisamente rari nelle formazioni geologiche della crosta terrestre.

I primi due di questi elementi sono lo scandio e l’ittrio [Y], che non hanno posto difficoltà ad essere inseriti correttamente nella tavola periodica, tra i metalli del 3° gruppo, caselle 21 e 39. Anche il successivo, il lantanio [La] capostipite del cosiddetto gruppo dei lantanidi, si posiziona correttamente nella casella corrispondente al numero atomico 57 del 3° gruppo.

Vedremo in seguito come invece i successivi 14 elementi hanno dovuto essere raggruppati in una classe speciale, fuori dalla tavola periodica e per quali ragioni ciò si sia reso necessario.

 

La nomenclatura

Ho ritenuto interessante per i lettori dare conto dei nomi che i chimici, spesso con notevole fantasia, hanno dato a questo gruppo di metalli. Intanto cominciamo col nome terre rare: fu coniato quando lo scandio e l’ittrio furono isolati in ossidi, precedentemente non individuati, della gadolinite, un minerale che si estraeva da una miniera in Svezia, nei pressi del villaggio di Ytterby. Questo già rende conto del nome di ittrio e del suo relativo corrispondente simbolo chimico [Y].

La scandio deve abbastanza ovviamente il suo nome alla denominazione geografica Scandinavia.

Vediamo adesso il lantanio: fu scoperto dal chimico svedese Carl Gustav Mosander nel 1839, che riuscì a separare il relativo ossido dal cerio [Ce], un altro elemento delle terre rare. Chiamò questo ossido lantana, da cui fu in seguito isolato il metallo puro, il lantanio. Il nome fu creato a partire dal greco lanthanein, che evoca il concetto di "nascondere", proprio perché in senso figurato, il lantanio si “nascondeva” dietro al cerio.

Il metallo successivo è proprio il cerio, casella 58 nel 4° gruppo. Fu scoperto nel 1803 da Berzelius e von Hisinger, e indipendentemente da Klaproth, tutti e tre chimici tedeschi. Berzelius battezzò l’elemento cerio, in onore dell’asteroide Cerere, che gli astronomi avevano scoperto due anni prima, nel 1801. Tra le terre rare, il cerio è l’elemento più abbondante nella crosta terrestre, con una percentuale intorno allo 0,005%. I minerali da cui viene estratto lo vedono sempre associato ad altri metalli della serie dei lantanidi.

Prima di passare ad esaminare il prossimo elemento vorrei anticipare che, nei prossimi articoli, parleremo anche delle proprietà di questi metalli nei campi dell’elettronica, dell’ottica, della metallurgia: per ora basterà dire che tutta la moderna tecnologia, dai telefoni cellulari ai computer, dalla televisione a colori alle telecomunicazioni e in moltissime altre applicazioni, si basano sull’impiego delle terre rare; una cosa straordinaria a pensarci bene, se si considera che per tutta la prima metà del 1900 questi elementi erano poco più che delle curiosità da laboratorio.

Veniamo dunque al praseodimio [Pr], casella 59 del 5° gruppo. Nel 1841 il chimico svedese Mosander isolò la "terra rara" didimio, da un minerale da cui si estraeva il lantanio. Nel 1885 il chimico austriaco barone Auer von Welsbach dimostrò che il didimio constava in realtà di due elementi, cui diede il nome di praseodimio e di neodimio [Nd], che davano sali di colori diversi, da qui il nome: infatti praseodimio deriva dal greco: prasios, verde e didymos, gemello. Il gemello verde del neodimio!

Prima di continuare con i nostri riferimenti chimico-letterari a proposito degli elementi delle terre rare, farò un brevissimo excursus (non preoccupatevi) nel campo della fisica atomica. Dunque ogni atomo è formato da un nucleo e da un certo numero di elettroni che gli orbitano attorno. Il nucleo è formato da protoni e da neutroni. Questi ultimi se ne stanno lì, senza fare niente di speciale, se non contribuire al peso atomico di quell’elemento e complicare la vita agli studenti di chimica con la faccenda degli isotopi. I protoni sono elettricamente carichi, e precisamente sono portatori di una carica positiva (+).

Gli elettroni sono invece portatori di una carica elettrica negativa (-).

Siccome l’atomo è elettricamente neutro, il numero degli elettroni intorno al nucleo deve essere eguale al numero dei protoni.

La nucleosintesi stellare ha prodotto nuclei da 1 a 92 protoni, cioè i nuclei atomici dall’idrogeno [H, 1 protone] all’uranio [U, 92 protoni] che si sono sistemati captando elettroni dall’ambiente, trasformandosi in atomi neutri. Ad esempio un nucleo con 14 protoni si accaparra 14 elettroni e diventa un atomo di silicio [simbolo Si, numero atomico 14].

Il punto fondamentale per capire perché gli elementi delle terre rare sono rari, è questo: gli elettroni non si mettono a “girare” intorno al nucleo a casaccio, ma occupano stati energetici discreti, cioè quantizzati, in orbitali definiti da numeri quantici. Il primo orbitale del primo livello energetico può accomodare due elettroni (orbitale s) il secondo 6 (orbitale p). Più i gusci energetici che circondano il nucleo sono maggiori in diametro, più orbitali, e quindi più elettroni, potranno essere accomodati. La regola generale è che ogni livello energetico debba contenere tutti gli elettroni che gli competono, prima che l’elettrone successivo possa prendere posto in un orbitale superiore.

Tutto va bene, dunque fino all’elemento lantanio [La, numero atomico 57]: poi succede un fatto singolare: gli elettroni che “arrivano dopo”, cioè gli elettroni che neutralizzano i nuclei atomici dal Cerio [Ce] al Lutezio [Lu] (vale a dire dall’elemento con 58 elettroni a quello con 71 elettroni o, ciò che è lo stesso, dal numero atomico 58 al 71) non entrano nei livelli ad energia superiori che dovrebbero riempire, ma in orbitali f del livello quantico inferiore che erano stranamente rimasti liberi. Non ci addentreremo oltre a spiegare il perché di questo comportamento. Quello che ci interessa notare è questo: siccome le proprietà chimiche di un elemento dipendono largamente dagli elettroni degli strati più esterni, è intuitivo che se tali strati rimangono tutti eguali, e il numero atomico aumenta solo in funzione di elettroni “nascosti all’interno”, la separazione e l’individuazione chimica di tali elementi sarà difficoltosa. Come infatti è stato.

 

Possiamo ora tornare alle nostre terre rare. Eravamo arrivati al Praseodimio [Pr], n.a. 59.

Segue, col n.a. 60, il neodimio [Nd]. Scoperto nel 1885 dal chimico austriaco barone Carl Auer von Welsbach come il praseodimio, fu da questi battezzato neodimio, cioè il nuovo gemello, con la stessa logica che lo aveva portato a coniare il nome praseodimio. Trova importanti applicazione nella realizzazioni di laser allo stato solido.

Passiamo adesso al promezio [Pm], n.a. 61. Metallo tenero che non esiste in natura, è stato ricavato da sottoprodotti della fissione nucleare dell’uranio, da cui il nome derivato da Prometeo, il titano della mitologia greca che rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini. La previsione teorica della sua esistenza, basata sulla tavola periodica di Mendeleev, fu fatta già nel 1902.

Il lantanide successivo è l’elemento samario [Sm] n.a. 62. Nel 1853 il chimico svizzero Jean Charles Galissard de Marignac lo individuò per via spettroscopica, ma fu il chimico francese Lecoq de Boisbaudran a isolarlo nel 1879 dal minerale samarskite. Il minerale a sua volta doveva il suo nome a un ufficiale russo, il colonnello Samarski, che quindi è la fonte primaria del nome del nostro elemento. Vasilij Samarski era un ingegnere minerario russo che scoprì un minerale complesso, il pironiobato di uranio e ittrio, che in suo onore fu chiamato samarskite. Noterò di sfuggita che anche l’elemento anionico di questo minerale (il niobato) deriva dall’elemento niobio [Nb], n.a. 41. Siamo in piena mitologia greca. Le proprietà chimiche del niobio sono così simili a quelle del tantalio, che così come Tantalo diede il nome al tantalio, così la figlia di Tantalo, Niobe, diede il nome al niobio. Se per caso state chiedendovi perché Tantalo fu chiamato in causa per battezzare il tantalio, ebbene la ragione è questa: come Tantalo fu sottoposto al famoso supplizio di non potere né bere né nutrirsi, benché circondato da acqua e frutti, così il metallo tantalio posto in contatto con moltissimi reagenti, non reagisce con nessuno di essi.

Se state pensando che i chimici sono gente un po’ strana, ebbene, avete ragione.

L’elemento che segue nella serie dei lantanidi è l’europio [Eu], p.a. 63.

Questo elemento è molto interessante, perché la sua chimica ha rivoluzionato l’industria dei televisori a colori, prima dell’avvento dei display a cristalli liquidi e a led. Occorre sapere che uno schermo televisivo di tipo classico (a raggi catodici), funziona perché al suo interno ci sono, depositati in quantità minime, dei composti chimici detti comunemente “fosfori”. Quando questi fosfori vengono eccitati da un fascio di elettroni, emettono una luce di colore diverso a seconda della composizione chimica. L’europio ha la proprietà, quando venga usato come “dopante” dei fosfori rossi, di esaltare l’emissione di questo colore, in una lunghezza d’onda corrispondente a un bel rosso vivo. Questa scoperta risolse il punto debole dei vecchi televisori a colori, che esibivano rossi smorti e pallidi. Si aprì una duplice gara industriale: da una parte trovare nuove miniere di monazite, il minerale da cui si estrae l’europio e dall’altra la messa a punto di un metodo chimico-fisico per l’efficiente separazione dell’europio dagli altri metalli che lo accompagnano nel minerale.

Dal punto di vista minerario i primi ad avere successo furono gli americani con una nuova miniera di monazite in California, con contenuti dell’ordine dello 0,1%, seguiti anni dopo dai cinesi con la miniera di Bayan Obo, con contenuti in europio dello 0,2%.

Per quanto riguarda il metodo di estrazione costituì una vera rivoluzione tecnologica la scoperta del chimico americano Herbert Newby McCoy, che mise a punto un efficiente sistema di separazione dei metalli delle terre rare con il metodo a scambio ionico.

Frank Spedding, un canadese che è stato un famoso chimico specialista in terre rare, raccontò questo divertente aneddoto: un giorno, quando l’europio e i suoi sali erano ancora sostanze estremamente rare, durante una sua conferenza sull’europio nel 1930, fu avvicinato da un distinto signore anziano che gli chiese se fosse interessato a ricever qualche chilo di ossido di europio. Spedding non lo prese sul serio, pensando ad uno scherzo. Invece qualche giorno dopo arrivò un pacchetto contenete quanto promesso. L’anziano signore era Herbert McCoy, che fece così sapere al mondo della sua rivoluzionaria scoperta.

 

Riprendiamo adesso l’esame dei nostri elementi delle terre rare con un metallo che non ha riferimenti mitologici: il gadolinio [Gd], n.a. 64. Gli fu assegnato questo nome, in onore del chimico e geologo finlandese Johan Gadolin, scopritore dell’ittrio, un elemento di cui abbiamo già parlato all’inizio.

Il gadolinio, individuato dal chimico svizzero Jean Charles Galissard de Marignac e dal francese Paul Emile Lecoq de Boisbaudran, è un elemento estremamente versatile che, come molti altri del suo gruppo, ha trovato in anni recenti un gran numero di applicazioni nelle tecnologie più diverse. Menzioneremo il suo uso nella preparazione di fosfori rossi per i televisori a colori a tubo catodico, nella produzione di cristalli per dispositivi a micro-onde. Molto importante l’impiego dei suoi derivati metallorganici come mezzo di contrasto nell’imaging NMR. Forma leghe metalliche col ferro-cromo, migliorandone la lavorabilità.

La casella successiva è occupata dal terbio [Tb], n.a. 65. Scoperto dal chimico svedese Carl Gustav Mosander nel 1843, e deve il suo nome al solito villaggio svedese di Ytterby, cha ha dato il suo nome anche all’ittrio. Come al solito solo di recente è uscito dall’elenco delle curiosità di laboratorio. Trova impiego nella fabbricazione di transistor, come componente delle celle a combustibile, e nella preparazione dei fosfori verdi nelle lampade al neon.

Segue il disprosio [Dy], n.a. 66, che deriva il suo nome dal greco dysprositos, “difficile da raggiungere”. E in effetti, scoperto da Lecoq a Parigi nel 1886, è stato isolato in forma pura solo negli anni ’50. Trova impiego nelle centrali nucleari come assorbitore di neutroni e nella fabbricazione dei DVD.

 

Continuiamo: al numero atomico 67 si colloca l’olmio [Ho]. Con i miei colleghi studenti alla facoltà di chimica industriale avevamo deciso che l’olmio era stato scoperto da Sherlock Holmes, ma per la verità il suo scopritore fu Per Teodor Cleve nel 1878, che gli diede il nome in onore della sua città natale, Stoccolma. Viene usato per produrre barre di controllo per reattori nucleari. Molto importante l’impiego di questo metallo nella fabbricazione di laser a micro-onde, che sono la base di strumenti chirurgici avanzati.

Siamo arrivati all’erbio, [Er] n.a. 68. Manco a dirlo, essendo stato scoperto in un minerale scavato nelle miniere presso il villaggio di Ytterby dal solito Carl Gustav Mosander, ha preso il nome da questo ormai mitico villaggio.

Gli usi dell’erbio sono numerosi: metallo per leghe di acciai speciali, componente delle fibre ottiche; il suo ossido dà un bel pigmento rosa, usato per colorare il vetro e la ceramica.

Passiamo al tulio, [Tm], n.a.,69. Questo è il più raro dei lantanoidi, il che non è poco: raro tra i rari! Non ha grandi impieghi: sono stati costruiti laser a tulio, ma i costi sono troppo elevati. Viene impiegato come sorgente di raggi gamma, per bombardamento neutronico.

Ah, dimenticavo l’origine del nome: deriva dalla mitica Thule, un nome con cui i Romani indicavano misteriose terre non bene identificate, all’estremo nord del continente europeo. Lo battezzò così Per Teodor Cleve, che lo scoprì nel 1879.

Siamo alla penultima stazione: al numero atomico 70, ecco l’itterbio [Yb]: con questo elemento l’ormai ben noto villaggio svedese Ytterby fa poker, avendo dato il nome a quattro elementi, di cui tre del gruppo dei lantanidi: ittrio, terbio, erbio e itterbio. L’itterbio è stato scoperto dal chimico svizzero Jean Charles Galissard de Marignac nel 1878. I suoi impieghi sono analoghi a quelli degli elementi più vicini: metallurgia e dispositivi laser.

Ed ora l’ultimo elemento della serie: il lutezio [Lu] n.a. 71. Scoperto dal chimico francese Georges Urbain nel 1907, deve il suo nome a Lutetia, l’antico nome romano di Parigi. Il mineralogista austriaco Carl Auer von Welsbach scoprì indipendentemente il lutezio, e propose il nome cassiopio con riferimento alla costellazione Cassiopea, ma infine prevalse il nome attuale. Trova impiego in metallurgia e come catalizzatore di numerosi processi chimici nell’industria del petrolio.

Per concludere vorrei spendere due parole sul villaggio di Ytterby. Si trova nell’isola di Resarö, nel comune di Vaxholm, arcipelago di Stoccolma. Come sito della prima miniera di monazite, il minerale nel quale sono stati scoperti ben quattro nuovi elementi chimici, è stato insignito di una targa commemorativa, posta all’ingresso dell’antica miniera.

Bene, siamo arrivati alla fine della serie dei lantanidi. Spero di essere riuscito a mescolare passabilmente un po’ di scienza, un po’ di storia della scienza, un po’ di cultura classica e un po’ di divertimento.

 

Mi rendo conto che milioni di persone vivono felicemente senza avere la più pallida idea di cosa siano gli elementi delle terre rare, ma questo non è un buon motivo per non parlarne. Primo perché, a mio modesto avviso, sapere qualcosa è meglio che non saperlo. Secondo perché una buona parte della tecnologia moderna e quindi degli oggetti di cui non potremmo fare a meno, deve la sua esistenza a queste vecchie curiosità di laboratorio. 

Omeopatia

A proposito di omeopatia…

Il doppio cieco non è, come si potrebbe pensare, un modo per indicare la sfortunata situazione di due gemelli siamesi ambedue non vedenti, ma invece un rigoroso metodo di valutazione di nuovi farmaci sottoposti a sperimentazione clinica. Si tratta di una procedura complicata, nella quale una certa forma farmaceutica, ad esempio compresse, viene allestita in due lotti del tutto identici, salvo che uno contiene il principio attico e l’altro sostanze inerti.

Le compresse in questione vengono quindi confezionate in contenitori contraddistinti da una sigla casuale, e solo il responsabile della sperimentazione è in possesso della chiave per decrittare le sigle e stabilire se si tratta del prodotto A (attivo) o B (inattivo).

Infine, dopo avere selezionato un certo numero di centri clinici dove effettuare la sperimentazione, le confezioni, apparentemente identiche, vengono consegnate ai medici sperimentatori (uno dei due “ciechi”) che somministrano le compresse ai pazienti (il secondo “cieco) affetti dalla patologia contro la quale si vuole testare l’efficacia del farmaco.

Alla fine, raccolte le cartelle cliniche, che possono arrivare al numero di centinaia di casi trattati, si apre la chiave che permette di stabilire quali pazienti hanno ricevuto il farmaco e quali l’inerte, e si valuta se il gruppo trattato col farmaco ha mostrato significativi miglioramenti rispetto a quelli trattati con l’inerte.

Vi chiederete: perché affrontare questa lunga, defatigante e costosa procedura sperimentale? Presto detto: serve per sconfiggere un subdolo nemico di tutte le sperimentazioni cliniche, un nemico che si chiama “effetto placebo”. Consiste, in termini semplici, nel fatto che un malato convinto di assumere un farmaco efficace, sviluppa un meccanismo psicologico che lo convince di “sentirsi meglio”, addirittura lo fa guarire. Ovviamente si tratta di una guarigione spontanea, che sarebbe comunque avvenuta, ma indubbiamente il meccanismo psicosomatico di “volontà di guarire” accelera il processo.

È interessante notare che l’effetto placebo è un solido principio scientifico ed è alla base del successo, ad esempio, della cosiddetta “medicina” omeopatica, basata sull’assunzione di acqua fresca, che in effetti migliora i sintomi o addirittura accelera la guarigione, naturalmente solo di quelle malattie che comunque sarebbero guarite da sole: deve essere chiaro che contro il cancro al polmone o contro la poliomielite non c’è acqua fresca che tenga.

 

Stabilito quindi che nel campo della sintomatologia e della malattia psico-somatica l’omeopatia ha un suo intrinseco valore, correlato a un valido principio medico, l’effetto placebo, non si capisce perché i cultori di questa pratica si ostinino a cercare prove “scientifiche” a sostegno di questa pratica, ricorrendo a sciocchezze assurde tipo “la memoria dell’acqua” o a cretinate ancora peggiori (come ho sentito di recente) che tirano in ballo addirittura “l’entaglement quantistico”. Ora è evidente che chi pensa di guarire dal mal di schiena con l’omeopatia, e magari guarisce, se pensa che la cosa funzioni grazie all’entanglement quantistico, non sa di cosa parla. Sarà bene ricordare, a questo proposito, che i fenomeni descritti dalla fisica quantistica, hanno a che fare con le particelle subatomiche: siamo cioè nel campo della fisica nucleare e subnucleare e delle corrispondenti equazioni d’onda. Nel mondo reale, in quello degli atomi e della chimica, per intenderci, vagheggiare di interazioni quantistiche non significa nulla.

Addomesticare la bomba H

Chi si è scottato con la fusione fredda…

Nel 1989 due ricercatori, Martin Fleischmann  dell'Università di Southampton in Inghilterra e Stanley Pons dell'Università dello Utah, Stati Uniti,  annunciarono prima in conferenza stampa e poi con un articolo sulla rivista Journal of Electroanalytical Chemistry un risultato a prima vista strabiliante: durante un esperimento condotto con una cella elettrolitica con anodo in platino e catodo in palladio, in un elettrolita  a base di acqua pesante, avevano constatato una produzione di energia termica riconducibile ad una fusione nucleare a bassa temperatura. A riprova, asserivano inoltre di avere misurato un flusso di neutroni e la produzione di un isotopo stabile dell’elio, mentre le misurazioni calorimetriche effettuate confermavano, a loro dire, l’avvenuta reazione nucleare.

Insomma, il mondo aveva a disposizione una bomba H addomesticata, fonte inesauribile di energia a basso costo. Grande entusiasmo mondiale, richieste di finanziamenti al Congresso americano per milioni di dollari, ricevimento alla Casa Bianca per i nostri due eroi. Peccato però che nessun laboratorio al mondo riuscì mai a riprodurre questo esperimento, Fleischmann e Pons si rovinarono la carriera e dopo essere stati sommersi da critiche ferocemente sarcastiche, furono dimenticati.

Naturalmente da quel giorno nessuno si sognò più di annunciare altre scoperte riguardanti la fusione nucleare controllata, anche se in verità gli esperimenti continuarono.  

Il seguito della storia è che senza clamori e direi quasi in sordina in giro per il mondo sono in corso esperimenti e sviluppi di progetti, grandi e piccoli, per realizzare la fusione nucleare (quella che fa splendere il Sole) sulla Terra. Una simile realizzazione metterebbe a disposizione dell’umanità un fonte di energia praticamente inesauribile e non inquinante, dato che una delle caratteristiche del processo è quella di non produrre gas serra né scorie radioattive.

In Francia c’è ITER, un consorzio costituito da Europa, Cina, India, Giappone, Corea, Russia e USA con un capitale di 20 miliardi di dollari.

C’è negli Stati Uniti NIF (National Ignition Facility) che dispone di grosse risorse finanziarie.

C’è poi una piccola e misteriosa società negli Stati Uniti, la Tri Alpha Energy, che dispone “solo” di 150 milioni di dollari, e che ha tra i soci Paul Allen, il co-fondatore di Microsoft e la società russa Rusnano.

Il problema della fusione nucleare ovviamente non è quello di innescare la reazione, già risolto con la creazione della bomba H, ma quello di mantenerla sotto controllo, “confinata” come dicono gli addetti ai lavori. La piccola Tri Alpha sembra avere al proposito delle idee molto interessanti, come spiega l’articolo del Corriere della Sera del 26 Agosto 2015.

Stricnina: il veleno preferito dai giallisti

Strychnos ignatii, cioè la Fava di Sant’Ignazio, absit iniuria verbis, fu studiata nel 1818, insieme a Strychnos nux vomica e a Strychnos colubrina, da Pelletier e Cavendou, due chimici francesi molto bravi, che devono la loro fama soprattutto all’identificazione della struttura della chinina, l’unico rimedio, per secoli, contro le febbri malariche.

Tornando dunque ai semi del genere Strychnos, famiglia Loganiacee, diremo che contengono tutti l’alcaloide stricnina, un potente veleno la cui struttura fu determinata dai nostri due chimici. La stricnina ha fatto la felicità di centinaia di autori di romanzi polizieschi, perché induce una morte drammatica, con violente convulsioni che portano a collasso fisico e blocco respiratorio. Inoltre per molto tempo fu usata come topicida, ed era quindi relativamente facile procurarsela.

 

Per chi ha conoscenze di chimica organica, riporto la formula di struttura e la formula spaziale della molecola stricnina, un’affascinante molecola a 7 anelli aromatici, eterociclici e carbociclici. Si riconosce facilmente il nucleo dell’indolo. La biosintesi di questo alcaloide è un risultato straordinario della chimica vegetale: partendo dalla condensazione di triptamina e secologanina si arriva in sette passaggi (catalizzati da enzimi) alla stricnina. 

Interessante anche la presenza del nucleo dell'indolizidina (octaidro-indolizina).

 

Stricnina formula di struttura
Stricnina formula di struttura
Stricnina formula spaziale "sticks and balls"
Stricnina formula spaziale "sticks and balls"
Indolizidina
Indolizidina

Dal cammello al parto indolore

Intanto precisiamo che i cammelli esistono solo in Asia centrale e che hanno due gobbe: Camelus bactrianus. (Quello con una gobba sola è il Camelus dromedarius, cioè il dromedario, comune in Africa settentrionale, in Asia e, introdotto dall’uomo, in Australia).

Ebbene, un bel giorno si venne a sapere in Europa che questi cammelli asiatici, in genere di bocca buona, non ne volevano sapere di nutrirsi di certe canne, anche se avevano una fame boia. Così indagando i principi attivi di questo vegetale, si scoprì che conteneva un alcaloide tossico, la gramina, dal quale il cammello astutamente si asteneva.

All’Università di Stoccolma si decise di indagare la struttura della gramina; il chimico Holger Erdtman sintetizzò l’isogramina (un isomero della gramina), e seguendo l’abitudine di molti chimici organici quando sintetizzano una nuova molecola, se ne mise un nonnulla sulla lingua: percepì un sapore dolce/amaro e poi, con sua sorpresa, la lingua divenne insensibile.  Era il 1935 e quello fu l’inizio di una lunga ricerca che portò Erdtman e il suo allievo Nils Löfgren a sintetizzare 57 molecole  strutturalmente correlate, per cercare di individuare un potente anestetico locale, ben tollerato e innocuo per l’uso clinico. Il primo risultato positivo della ricerca fu l’individuazione della lidocaina, commercializzata col marchio Xylocaine. 

Nel corso del tempo, gli scienziati della compagnia farmaceutica svedese AB Bofors, scoprirono nel 1957 che incorporando il nucleo della lidocaina in molecole contenenti un sistema ciclico, si ottenevano eccellenti anestetici locali. Due di questi , la mepivacaina (Carbocaine) e la bupivacaina (Marcain) furono messi in commercio . La bupivacaina è ancora oggi un anestetico locale di prima scelta per l’anestesia epidurale, nel parto indolore.

 

Per chi ha conoscenze di chimica organica riporto alcune formule di struttura. Si vede che il gruppo funzionale dell'acido N-dietil-aminoacetico della lidocaina è stato sostituito, nella bupivacaina, dal gruppo  N-butil-2-piperidin-carbossilico.


gramina
gramina
isogramina
isogramina
lidocaina
lidocaina
bupivacaina
bupivacaina

Dallo sfasciacarrozze all'epilessia

Il dizionario italiano del Corriere della Sera on-line dà la seguente definizione: “Sfasciacarrozze: demolitore di auto usate o incidentate, delle quali recupera il metallo e vende le parti e i pezzi ancora funzionanti”. Quindi a tutti gli effetti un sinonimo di “autodemolitore”, un termine che mi sembra più usato nel nord Italia, mentre “sfasciacarrozze” mi sembra più di area centro-meridionale.

Ad ogni modo negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale in Europa si deve essere creato un commercio di pezzi recuperati dagli armamenti abbandonati o semidistrutti sui campi di battaglia: insomma pezzi di veicoli e carri armati, cannoni e aeroplani abbattuti. Anni dopo il professor Tracy Putnam fu nominato direttore dell’unità neurologica del Boston City Hospital e nel 1934 mise in piedi il primo laboratorio elettroencefalografico al mondo, per lo studio routinario delle onde elettriche cerebrali. Un’osservazione molto importante fu che gli attacchi epilettici erano accompagnati da una “tempesta” elettrica nel cervello. A questo punto Putnam immaginò un programma di ricerca in cui si potevano testare farmaci per contrastare gli attacchi epilettici:  occorreva poter indurre in animali da esperimento convulsioni provocate da impulsi elettrici misurabili e poi vedere quali farmaci erano in grado di bloccare le convulsioni. Occorreva un generatore di corrente continua regolabile; un assistente di Putnam trovò quello che serviva, un generatore recuperato da un aereo tedesco abbattuto in Francia. Come farmaco di riferimento fu usato il fenobarbitone. Su richiesta di Putnam una società farmaceutca (Parke, Davis & Company) inviò diciannove composti, analoghi chimici del fenobarbitone, per testare la loro capacità di bloccare le convulsioni epilettiche, senza mostrare gli indesiderati effetti sedativi del fenobarbitone.

Da queste ricerche emersero i primi farmaci anti-epilettici, come la fenitoina, attiva nel grande male (convulsioni tonico-cloniche) e il troxidone, attivo nel piccolo male (assenze). Incorporando i nuclei attivi di fenitoina e troxidone nella stessa molecola, fu sintetizzata l’etosuximide: introdotta in terapia nel 1958, rimane ancora oggi un importante farmaco per il piccolo male in campo pediatrico.

 

Per chi ha conoscenze di chimica organica, riporto alcune formule di struttura. Si nota nella molecola dell' etosuximide, la presenza di parte del nucleo dell'imidazolidin-2,4-dione della fenitoina, e di parte del nucleo  dell'oxazolidin-2,4-dione del troxidone.

 

Fenobarbitone (Fenobarbital)
Fenobarbitone (Fenobarbital)
Fenitoina
Fenitoina
Troxidone (Trimetadione)
Troxidone (Trimetadione)
Etosuximide
Etosuximide